Paolo Blasi – LE FONDAZIONI BANCARIE: VINCOLI E OPPORTUNITA’ NELLE ALLOCAZIONI DEI FONDI

(estratto da Paradoxa 4/2010) Le fondazioni bancarie italiane sono nate venti anni fa con la legge delega 218 del 30 luglio 1990 detta “legge Amato”. In sostanza tale legge prevedeva per le banche del Monte e le Casse di Risparmio la separazione dell’attività creditizia da quella filantropica. In effetti tali banche, sorte per lo più nei primi dell’Ottocento, avevano una forte connotazione solidaristica e di tutela delle comunità locali nella fase critica di passaggio dalla civiltà agricola a quella industriale. Con la legge Amato l’attività creditizia viene attribuita alle Casse di Risparmio Spa che diventano a tutti gli effetti società profit, commerciali, private, disciplinate dal Codice Civile e dalle norme in materia bancaria come il testo unico della Finanza. Mentre le neonate fondazioni diventano per decreto pubblico istituzioni private no profit e assumono l’essenza autentica delle Casse da cui originano, in particolare per le finalità di sviluppo sociale, culturale, civile ed economico delle comunità locali che avevano a suo tempo generato le Casse di Risparmio. Là dove le Casse erano nate come società anonime con conferimenti patrimoniali di singoli privati cittadini, l’assemblea dei soci rimane assemblea della fondazione che ha quindi origine e natura associativa; là dove invece le Casse

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Vittorio Possenti – PERSONALISMO E FINE DELLA VITA

(Estratto da Paradoxa 4/2009) 1. Nelle accese discussioni che punteggiano il cammino della legge sulla “fine della vita”, è in gioco in primo luogo la persona, la sua dignità, l’idea che ne formiamo. Una buona legge non deve far tutti contenti – cosa auspicabile ma difficile – piuttosto deve possedere solide basi antropologiche e morali e capacità di largo abbracciamento, cercando punti di intesa sin dove possibile e senza andar contro basi riconosciute e diritti/doveri certi. Una buona legge ha dunque bisogno di un retroterra di “evidenze antropologiche”, e di mantenersi nel quadro dei diritti e doveri costituzionalmente stabiliti. Si tratta infatti di una legge dello Stato, che non deve violare la sfera della coscienza, ma cercare un saggio bilanciamento tra i criteri dell’autodeterminazione e della tutela della vita umana. Esso diviene impossibile se i due criteri sono intesi come assoluti: tra l’assolutezza dell’autodeterminazione e l’assolutezza dell’indisponibilità della propria vita non vi è possibilità di intesa. Per questi motivi appare necessario un nuovo sforzo di riflessione personalista. 2. Il personalismo è oggi sulla bocca di molti e numerosi sono i pensatori personalisti, in specie nell’area cattolica. Di ciò ci si deve rallegrare, anzi un inveterato personalista come me si sente

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Chiara Prele – FONDAZIONI CULTURALI E FONDAZIONI DI ORIGINE BANCARIA: BREVI NOTE

L’universo fondazionale italiano è oggi estremamente ampio e variegato. L’evoluzione della fondazione è iniziata intorno agli anni Settanta, con una attenzione della società civile verso temi di tradizionale competenza del settore pubblico. Quest’ultimo ha mostrato interesse verso il fenomeno, specie in un momento di crisi del welfare state. Le fondazioni sono dunque aumentate vistosamente di numero, si configurano maggiormente come fondazioni operative che come fondazioni di erogazione, operano in diversi campi (culturale, scientifico, di ricerca, assistenziale, etc.); esse presentano, inoltre, differenze tra di esse. Questa evoluzione è stata resa possibile dalla presenza di una disciplina, contenuta nel titolo II del libro primo del codice civile, molto scarna e che ha subito successivi interventi abrogativi da parte del legislatore; gli statuti delle singole fondazioni hanno quindi  potuto colmare le lacune, inserendosi nelle maglie di una disciplina a trama larga. La fondazione è stata utilizzata dallo Stato e anche da altri enti territoriali, quali le Regioni. Lo Stato ha trasformato in fondazione enti pubblici; il fenomeno si è verificato prevalentemente in campo culturale (l’esempio paradigmatico è costituito dalla trasformazione in fondazione degli enti lirici, con decreto legislativo n. 367/1996), prevalentemente allo scopo di attrarre risorse private che colmassero l’insufficienza delle risorse statali. Inoltre,

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Laura Paoletti – DAI BENI CULTURALI AL CAPITALE IMMATERIALE

(editoriale di Paradoxa 1/2009) Esiste oggi in Italia una vera politica culturale? E se esiste chi se ne fa carico? In un momento come l’attuale, a fronte dell’agenda imposta dalla dilagante crisi economica con i suoi drammatici effetti, mettere a tema il destino delle fondazioni culturali e il loro possibile rapporto con le fondazioni bancarie – come Paradoxa fa – rischia di apparire surreale come il suggerimento di Maria Antonietta di saziare con le brioches il popolo affamato. E, tuttavia, la riflessione che Nova Spes ha inteso avviare con i partner coinvolti, non è un lusso a cui dedicare il tempo libero, il tempo che resta una volta che i problemi seri siano risolti. Partiamo da un dato, tanto universalmente denunciato, quanto ignorato nella sostanza: l’Italia soffre di una profonda crisi culturale che investe livelli e funzioni diversi nella società; una crisi di valori accomunanti, di contesti formativi, di capacità di innovazione e di progettualità politica. Una crisi, a conti fatti, tutt’altro che indolore: anche in termini economici. Ma non ci si aspetti di trovare qui un cahier de doléances. Nelle pagine che seguiranno la nota dominante, quella che amalgama le prospettive, anche molto eterogenee, che vengono qui alla parola

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Stefano Zamagni – FONDAZIONI CULTURALI E CAPITALE CIVILE

(estratto da Paradoxa 1/2009) È oggi ampiamente riconosciuto, anche se ancora non da tutti, che lo sviluppo economico moderno, e più in generale il progresso delle nostre società, più che il risultato dell’adozione di più efficaci incentivi odi più adeguati assetti istituzionali, consegue piuttosto dalla creazione di una nuova cultura. È accertato che l’idea per la quale incentivi e istituzioni efficienti generano risultati positivi a prescindere dalla matrice culturale è destituita di fondamento, dal momento che non sono gli incentivi di per sé, mail modo in cui i soggetti li percepiscono (e ad essi reagiscono) a fare la differenza. E i modi di reazione dipendono proprio dalla specificità della cultura, la quale è connotata dalle tradizioni, dalle norme sociali di comporta-mento, dalla religione intesa come insieme di credenze organizzate. È noto che valori e disposizioni quali la propensione al rischio, l’atteggiamento nei confronti del lavoro, la tendenza a fidarsi degli altri, l’idea di uguaglianza, la prevalenza del principio della colpa rispetto a quello della vergogna, ecc., sono fortemente connessi alle peculiarità culturali prevalenti in un determinato contesto spazio-temporale. L’economia di mercato di tipo capitalistico, al pari di altri modelli di ordine sociale, ha bisogno per la sua continua riproduzione di

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Stefano De Luca – LA DESTRA VISTA DA DESTRA intervista a Alessandro Campi e Luigi Compagna

(estratto da Paradoxa 3/2008) Nell’imminenza delle elezioni politiche del 2008 il quadro politico italiano si è scomposto e riaggregato, riducendo la sua storica frammentazione. Gli elettori si sono poi incaricati di semplificare ulteriormente tale quadro, eleggendo un parlamento che – per la prima volta nella storia repubblicana – ha un assetto quasi bipartitico. Lei pensa che sia infine giunto a maturazione il processo avviatosi nel 1994? E qual è, nel nuovo quadro politico, il ruolo del centrodestra? CAMPI – Le elezioni del 2008 hanno rappresentato, secondo molti osservatori, un punto di svolta. Non solo per la drastica riduzione del quadro politico-parlamentare prodotta dal voto popolare, ma anche per alcuni degli effetti per così dire “secondari” determinati da quest’ultimo: la scomparsa della sinistra antagonista dai luoghi della rappresentanza politica istituzionale, il fallimento fatto registrare alle urne dalla destra radicale e nostalgica, la cancellazione dei socialisti, il ruolo di opposizione ad un governo di centrodestra nel quale si è trovata confinata l’Udc di Casini per un grave errore di calcolo politico commesso da quest’ultimo. Ma ad essere cambiata radicalmente non è stata solo la geografia parlamentare: anche quella politico-culturale ha subìto una trasformazione profonda e per molti versi irreversibile. La vera novità

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Giuseppe Parlato – LA POLITICA. UNA PRASSI SENZ’ANIMA?

(Editoriale di Paradoxa 3/2008) Questo fascicolo di “Paradoxa” affronta un tema tanto attuale quanto, per certi versi, scontato. Tuttavia ci è parso opportuno dedicare a questa dicotomia storica – destra/sinistra – una riflessione non già nella presunzione di potere risolvere alcuno dei tanti problemi politici e filosofici che questo tema porta inevitabilmente con sé, quanto per fare il punto del tema, come si dice, alla luce di numerosi e significativi cambiamenti avvenuti negli ultimi anni. D’altra parte, non sarà un caso se proprio nel momento in cui gli italiani sono chiamati a scegliere il proprio governo dovendo optare tra una coalizione di centro destra e un’altra di centro sinistra, la riflessione sulle categorie di destra e sinistra ha prodotto numerosi contributi di notevole livello. Il tema, non a caso, si è prestato a diversi livelli di lettura. La lettura, per intenderci, più “ideologica”, che è stata propria fino agli anni Settanta e che vede nella inconciliabilità dei due termini due opposte visioni del mondo; quella più “antropologica” che invece è stata affrontata negli anni successivi alla crisi delle ideologie, e che comunque teneva ben presenti gli schemi di riferimento tra i due termini: comportamenti diversi, magari non strettamente ideologici, ma

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Danilo Breschi – QUELLO SCHMITTIANO DI GIULIO TREMONTI

Quella che segue non intende essere la recensione ad un libro che ha già fatto tanto discutere e che, adesso che il suo autore è tornato alla guida della politica economica del Paese, può diventare una sorta di cartina di tornasole dell’ideologia non solo del dicastero dell’Economia ma dell’intera compagine governativa. Potrà persino fungere in un prossimo futuro da misuratore di quanto il testo contenesse solo parole di teoria, oppure, al contrario, punti di un programma che ha inteso farsi governo dell’Italia e progetto strategico per l’Unione Europea. Non mi soffermerò dunque sull’intero contenuto del breve ma densissimo pamphlet che Giulio Tremonti ha dato alle stampe nel mese di marzo, intitolandolo La paura e la speranza (Mondadori). Mi limito solo a dire, prendendo a prestito la battuta di un amico, che c’è molta più paura che speranza nelle pagine tremontiane. O almeno il lettore, finito il libro, esce agitato interiormente più dal primo sentimento che dal secondo. Soprattutto se di economia ne sa poco o nulla. Allora, sì, che le cifre e le proiezioni statistiche, le descrizioni dei flussi finanziari contenute nel volume giganteggiano come mostruose figure da incubo e la lucidità si perde pagina dopo pagina, fino al punto

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Marco Zaganella – OLTRE L’ULTIMA FRONTIERA

Nel XX secolo i destini di Europa e Stati Uniti si sono a più riprese “incrociati”, per riprendere una definizione di Giuseppe Mammarella. A rendere possibile questo legame, che ha configurato l‘Occidente nella sua attuale forma, non è stata solo la presenza di un nemico percepito come “comune”, ma anche la condivisione di affinità ideologiche, culturali e interessi economici. In sostanza, se guardiamo alla storia del Novecento, non possiamo che concordare sul fatto che l’alleanza tra Europa e Stati Uniti fosse “inevitabile”. Ma con i piedi ormai dentro il nuovo secolo e con i processi di globalizzazione che rimescolano le identità culturali e sconvolgono le relazioni economiche, quello che dobbiamo chiederci è: ciò che è valso per ieri, lo sarà anche per domani? Lo stesso Vittorio Emanuele Parsi teme di no, e probabilmente sostiene la tesi dell’«alleanza inevitabile»  per esorcizzare una prospettiva che abbandonerebbe i singoli Stati europei – incapaci di armonizzare i reciproci interessi all’interno di un’Unione che assuma le forme di un serio soggetto politico – alla mercè dei giganti geopolitici del XXI secolo. Esistono tre ordini di considerazione per ritenere che nel prossimo futuro le relazioni transatlantiche «may not be inevitabile» – come afferma Cox. Tutti hanno

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