Oreste Massari – QUANTO CONTANO I PARTITI

(estratto da Paradoxa 1/2014) Nella Prefazione al volume di chi scrive su I partiti politici nelle democrazie contemporanee (Laterza, Roma-Bari 2004), Sartori afferma che: La bibliografia sui sistemi di partito e sui partiti è davvero sterminata e per parecchio tempo ha mescolato assieme il discorso sui sistemi (di partito) con il discorso sui partiti come tali, singolarmente intesi. Per fortuna non è più così. Le due indagini possono essere complementari, ma certo sono diverse […] Nei miei studi io mi sono occupato dei sistemi (p. IX) intendendo implicitamente dire che non si è occupato di partiti «come tali, singolarmente presi». Ora è vero che l’interesse prevalente del Nostro si sia rivolto alla dimensione sistemica dei partiti e in particolare alla tipologia dei sistemi di partito (G. Pasquino, La teoria dei sistemi di partito, in G. Pasquino (a cura di), La scienza politica di Giovanni Sartori, il Mulino, Bologna 2005), testimoniato da quell’opera del 1976 – Parties and Party Systems – che è oramai divenuta un classico. Ed è vero che nella sua pur estesa bibliografia non compare una monografia sul tema dei partiti. Ma non è vero che non ci sia stato interesse anche per «il livello di analisi […]

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Sergio Belardinelli – LA PRODUZIONE CULTURALE NELLA CHIESA

(estratto da Paradoxa 4/2013) Prima di affrontare il tema specifico che mi è stato assegnato – La produzione culturale nella Chiesa – mi sia consentita una considerazione preliminare a proposito del titolo generale: Intellettuali e cattolici. Confesso che qualche volta la parola intellettuale desta in me qualche perplessità. Eppure non ho alcuna difficoltà a qualificarmi come intellettuale cattolico. Sebbene le etichette non mi piacciano, è un’etichetta che non ho mai disdegnato. Del resto ognuno di noi è quello che è; difficile distinguere la parte di noi che dipende dalle convinzioni della nostra fede religiosa e quella che dipende invece da inclinazioni o considerazioni d’altro tipo. L’unica cosa certa è che siamo un’inestricabile mescolanza di fede, ragione, passione, pregiudizi e altro ancora, solo astrattamente separabili tra di loro. Ne va in ultimo dell’unità della nostra persona. Per questo nel dibattito pubblico dovrebbe contare la bontà degli argomenti che ognuno è in grado di mettere in campo, non certo l’etichetta ideologica che appiccichiamo loro addosso. Sennonché, in Italia, è proprio questo che, per cattolici e laici, sembra risultare estremamente difficile. «La mia storia è quella di un uomo che ha iniziato la sua vita credendosi un autentico cattolico e un autentico liberale,

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Franco Chiarenza – IMPIGLIATI NELLA RETE. E-DEMOCRACY UN PERICOLO PER LA DEMOCRAZIA LIBERALE

(estratto da Paradoxa 3/2013) C’era una volta… Grillo e il suo fantasioso quanto effimero movimento pentastellare. Il mondo politico, gli intellettuali dei salotti «politically correct», giornalisti, imprenditori, sindacalisti e quanti altri avevano assistito con sgomento alla clamorosa affermazione elettorale di un partito nato e cresciuto in internet, hanno tirato un sospiro di sollievo quando gli esiti delle elezioni amministrative hanno mostrato un evidente riflusso di un’ondata che si era in gran parte alimentata dell’indignazione diffusa e profonda nei confronti di una classe dirigente del Paese apparsa ai più inadeguata, corrotta, insensibile e arroccata nei propri privilegi. Le difficoltà di un movimento cresciuto al di là delle sue stesse aspettative, privo di riferimenti ideologici condivisi, unito soltanto da un sentimento irrazionale di adesione a una protesta gridata secondo modalità che (non a caso) appartengono più allo spettacolo che alla politica, sono apparse evidenti anche agli osservatori meno prevenuti non appena esso ha dovuto confrontarsi con scelte di governo che avrebbero richiesto livelli ben diversi di maturità e di esperienza. Ma non è di questo che vogliamo parlare, e men che meno degli esiti politici che il movimento di Grillo contribuirà, volente o nolente, a determinare in uno dei momenti più accidentati

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Maurizio Serio – ABBANDONARE IL CORPORATIVISMO PER UNA NUOVA RAPPRESENTANZA

(estratto da Paradoxa 2/2013) La questione della rappresentanza dei cattolici è da non pochi mesi al centro del dibattito culturale e mediatico, ammesso che un centro sia rinvenibile in una situazione assolutamente eccentrica quale è quella che sta attraversando la politica italiana. Lo stato di eccezione che accompagna la transizione dalla Seconda Repubblica a quella che al momento sembra essere una Neverland più che una tappa del processo di rinnovamento del sistema sembra giustificare e allo stesso tempo confinare in un limbo di irresponsabilità tutte le proposte che si vanno avanzando tra l’opinione pubblica non meno che tra i corridoi del Palazzo. Per dare concretezza al problema, sarà forse utile ripensare il nesso tra la cultura politica dei cattolici e gli assunti programmatici necessari a dare risposte all’elettorato, al fine di riconfiguare un corretto rapporto tra offerta e domanda politica, falsato dall’ortoprassi tecnocratica della quotidianità presente e dalla grande paura del déjà vu degli autoritarismi nell’immediato fu A nostro avviso è evidente lo svuotamento delle due grandi forme di rappresentanza della democrazia moderna, quella degli interessi e quella dei valori. La stagione della rappresentanza degli interessi ha coinciso con la stabilizzazione del compromesso costituzionale, che ha dato luogo alla democrazia

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Dino Cofrancesco – COME SI RICONOSCE UN LIBERALE DAVVERO

I. Il trimestrale ‘Paradoxa’, l’anno scorso, ha dedicato un fascicolo (quasi) monografico (aprile/giugno 2011), a cura del sottoscritto, al tema Quelli che… la democrazia. Vi si esaminava criticamente il pensiero di autori che rivendicavano il loro diritto a parlare in nome del demos, ma incorrevano in aporie e contraddizioni che facevano trasparire una concezione della democrazia ‘sostantiva’ premoderna, ovvero ancora restia a prender atto della ‘sconsacrazione’ di termini come il ‘Bene Pubblico’ o la ‘Volontà generale’ da qualche secolo in atto nell’Occidente europeo. Tarcisio Amato aveva trattato il tema Luciano Canfora e la democrazia; il sottoscritto aveva riproposto le sue riserve critiche sul tipo di democrazia liberale alla quale si richiama Gustavo Zagrebelsky; Daniela Coli aveva analizzato il nesso ‘democrazia’/’rappresentanza’ in un recente saggio di Nadia Urbinati; Alberto Giordano aveva discusso la ‘grammatica della democrazia’ di Michelangelo Bovero, Maurizio Griffo, traendo spunto da una tesi di Maurizio Viroli, aveva posto il problema Inclinazione alla servitù o difficoltà a metabolizzare il cambiamento?; Mario Quaranta aveva esaminato la democrazia secondo Paul Ginsborg; Daniele Rolando, infine, aveva fatto rilevare il paradosso di Massimo Salvadori relativo a una democrazia senza democrazia. Come si vede, la legna messa al fuoco era tanta e meritevole di

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Francesco D’Agostino – CITTADINANZA

(estratto da Paradoxa 2/2012) Parafrasando una battuta (atto II, quadro I) del libretto del Flauto Magico, che tanta ammirazione destava in Goethe, potremmo rispondere a chi si chiedesse se Tamino sia o no un cittadino: noch mehr! Er ist ein Mensch! E cioè: ben di più! È un uomo! È evidente che dietro il testo di Schikaneder si rivela il fascino tutto illuministico per il cosmopolitismo, ma è anche evidente, a mio avviso, qualcosa di più: l’insofferenza per qualsiasi denominazione che restringa il respiro dell’humanum, che dia all’identità dell’uomo limiti che le recano violenza, che neghi, insomma, il vecchio detto eracliteo, per quanto tu cammini, i confini dell’anima non li puoi toccare. Resta, con tutto ciò, fermo che quello della cittadinanza è indubbiamente un limite, che crea intenzionalmente una differenza: chi non è cittadino, chi non è mio concittadino, non è propriamente come me. Come può essere giusta una categoria che introduce una differenza dotata di tale radicalità? Eppure dell’idea della cittadinanza, di una idea della cittadinanza, quale che poi possa essere la sua concreta determinazione, sembra che proprio non se ne possa fare a meno. La vediamo emergere nei contesti in cui meno ci aspetteremmo di trovarla. Nella lettera

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Lapo Berti e Marcello Messori – IL LIBERALISMO E GLI ECONOMISTI ITALIANI

1. Il liberismo come problema terminologico? Fra le lingue più diffuse nel mondo, quella italiana è la sola a contemplare la distinzione fra “liberalismo” e “liberismo”. Per esempio, l’Enciclopedia Treccani definisce il primo termine come un “movimento di pensiero e di azione politica, che riconosce all’individuo un valore autonomo e tende a limitare l’azione statale in base a una costante distinzione di pubblico e di privato”, e il secondo termine come un “sistema imperniato sulla libertà del mercato, in cui lo Stato si limita a garantire con norme giuridiche la libertà economica e a provvedere soltanto ai bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa dei singoli […]”. Questa duplice definizione, che identifica il liberalismo con una concezione filosofico-politica e riserva al liberismo il campo dell’economia, non è un semplice curiosum. Al di là degli intenti che l’hanno generata, essa testimonia di quella separazione meccanica fra liberalismo politico e liberalismo economico che sta alla base della riflessione dei liberali italiani e che ha agevolato il travisamento della dottrina liberale classica da parte dei nostri economisti (cfr. sotto, par. 5 e 6). A sua volta, tale separazione è stata innescata dall’assenza in Italia di un’esperienza politicamente significativa di liberalismo,

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Pavel Rebernik – LA MORTE COME APERTURA DI SENSO. THE BUCKET LIST DI ROB REINER (2007)

(estratto da Paradoxa 3/2011) Edward Perriman Cole è morto in maggio Era domenica, di pomeriggio e nel cielo non c’era una nuvola È difficile capire il valore della vita di una persona C’è chi dice che viene misurato da quelli che gli sopravvivono Qualcuno crede che si possa misurare nella fede Qualcuno dice nell’amore Altri dicono che la vita non ha proprio senso Io? Io penso che uno misura se stesso in base alle persone che si sono misurate su di lui Con queste parole si apre il film di Rob Reiner, The Bucket List («La lista del capolinea» o «La lista in vista della fine», reso in italiano con «Non è mai troppo tardi»). Repentinamente e senza mezzi termini esse pongono al centro dell’attenzione l’invito a cogliere l’attualità e la necessità di una riflessione su ciò che costituisce il problema filosofico per eccellenza: l’esistenza dell’uomo e la sua vibrante domanda di senso. Il tema della morte, che dona ritmo al film, consente a sua volta di articolare la domanda in tre direzioni: 1) ricerca di senso: nel mondo, nell’uomo, in Dio; 2) assenza di senso: ateismo; 3) morte di senso: nihilismo. Le parole di apertura sono quelle del narratore,

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Redazione Paradoxa – MISURARE IL VALORE AGGIUNTO CULTURALE

Il 16 febbraio, presso la sede della Fondazione Nova Spes, si è svolto il seminario dal titolo “Misurare il valore aggiunto culturale”. Hanno partecipato: Stefano Bancalari (Fondazione Nova Spes), Luigi Cappugi (Fondazione Nova Spes), Pellegrino Capaldo (Associazione Amici Sturzo), Maurizio Carrara (Unicredit Foundation), Caterina Cittadino (Fondazione Astrid), Melina Decaro (Fondazione Adriano Olivetti), Antonio Fazio (Fondazione Generali), Stefania Mancini (Fondazione Charlemagne, Assifero), Laura Paoletti (Fondazione Nova Spes), Laura Pizei (Fondazione Craxi), Stefano Semplici (Fondazione Nova Spes), Pierluigi Valenza (Fondazione Nova Spes), Stefano Zamagni (Fondazione Nova Spes). Il PIL è un parametro d’osservazione fondamentale del livello di produttività di un Paese e, per quanto se ne possano evidenziare difetti e manchevolezze, nessuno oggi oserebbe ignorarlo o negare la realtà economica che esso rappresenta. Eppure, ha ricordato Stefano ZAMAGNI nella sua relazione introduttiva, non è sempre stato così: prima degli anni Venti l’indice PIL non esisteva; ed è stato costruito in funzione di necessità specifiche, conseguenti alla situazione venutasi a creare dopo la Prima Guerra Mondiale (in particolare per rimarcare la superiorità dello sviluppo economico dei Paesi capitalisti su quello dell’Unione Sovietica). L’esempio intende rendere lampante che persino nella più oggettiva delle misurazioni, si nasconde un elemento marcatamente soggettivo, che non inficia affatto

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Laura Paoletti – IL MOMENTO DI OSARE

(editoriale di Paradoxa 4/2010) Qualche numero fa, nell’introdurre la riflessione sul rapporto tra capitale e cultura (Paradoxa 1/2009), ci chiedevamo se trattare di argomenti simili in tempi di crisi economica non avrebbe fatto lo stesso effetto dell’infelice battuta attribuita a Maria Antonietta: il popolo ha fame e, invece che al pane, si pensa alle brioches. Scegliemmo di correre il rischio. Non potevamo immaginare, allora, che la questione della commestibilità e dello scarso valore nutritivo della cultura sarebbe divenuta il Leitmotiv dell’acceso dibattito in corso sulla legittimità dei drastici tagli al comparto culturale: dibattito non propriamente esaltante, per la verità, che in certe sue approssimazioni (e talvolta cecità) nei confronti di quale sia davvero l’oggetto in discussione conferma l’opportunità della scelta di allora. L’intuizione che fosse produttivo lavorare su una definizione teorica più precisa di ciò che provvisoriamente chiamavamo “il capitale cultura” si è venuta nel frattempo irrobustendo in un progetto strutturato, del quale i contributi e gli studi presentati in questo numero rappresentano una prima tappa. Non presentiamo risultati definitivi, ma una direzione di ricerca e alcune ipotesi di lavoro che richiedono ora un confronto più ampio, non soltanto nel senso dell’allargamento delle competenze disciplinari (che pure è indispensabile), ma

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