Seminario – Interpretazione: pluralità e fedeltà

Roma 20-22 Maggio 1994

Nella consapevolezza che l’attività interpretativa è condizione stessa dell’esistenza dell’uomo, questo incontro si è configurato come un tentativo di riflessione attorno al progetto di un’ermeneutica universale proponendosi di cogliere quel filo che collegando i vari discorsi ermeneutici ne faccia emergere l’unità di fondo. I singoli esempi di interpretazioni specialistiche, nell’arte, nel diritto, nella psicologia e psicanalisi, hanno dunque costituito la ricca e problematica base da cui si è partiti nel tentativo di cogliere il momento interpretativo dell’umanità nella sua unità globale.


Atti:

Introduzione

L’Istituto dell’Umanesimo globale ha inteso con la proposta di questo tema di seminario, e con la scelta degli interlocutori coinvolti, specialisti di ambito filosofico, giuridico e psichiatrico e psicanalitico, mettere a confronto diverse esperienze di interpretazione e far misurare queste diverse esperienze con l’uomo nella sua interezza, nella complessità della sua esistenza singola e di relazione. Gli ambiti coinvolti, soprattutto per il fatto di essere coinvolti contemporaneamente, hanno indubbiamente conferito un carattere peculiare ad un seminario che per altro verteva su un tema ampiamente dibattuto nella cultura contemporanea. In questa sintesi dei contenuti seguiremo lo svolgimento cronologico delle diverse sessioni, a cominciare da quella di apertura che ha fornito le linee di fondo, l’impostazione generale del seminario, documentando l’instaurarsi di dialoghi e di intrecci tra i vari ambiti, realizzatisi anche per la concezione strettamente seminariale dei lavori, centrati non principalmente sulle relazioni, quanto piuttosto sulla discussione tra i partecipanti.

Perché interpretazione?

Le due relazioni introduttive, del Prof. Vittorio Mathieu e della Prof. Laura Paoletti, hanno riflettuto sulla dimensione, potremmo dire, ontologica dell’interpretazione, e sul riflesso di questa dimensione nei vari ambiti coinvolti nel seminario: l’interpretazione è qualcosa di specificamente umano, legato all’interporre il linguaggio, definisce un rapporto col mondo, con i propri simili, con Dio, non nei termini immediati, istintuali, propri del mondo animale. La stessa cosa si può dire del rapporto dell’uomo con se stesso, quindi della riflessività propria dell’uomo che implica essa stessa, a prescindere dalla comunicazione esterna, un’interpretazione.
Il rapporto interpretativo con se stessi, il rapporto interpretativo con gli altri soggetti, sono costitutivi dell’uomo come persona, e del mondo come qualcosa di più che mero dato di fatto. La distanza dal mondo, intendendo in esso anche il soggetto stesso dell’interpretazione, e il cammino verso il superamento di questa distanza caratterizzano l’interpretazione, la collocano nello spazio della differenza ontologica, di un rapporto con una dualità irriducibile e con la quale, al tempo stesso, è però appunto instaurabile un rapporto: questo il valore della nozione di “senso”, sottolineata nella relazione di Mathieu, il senso come qualcosa di non riducibile a materiale manipolabile o a risultato operativo, e il valore del movimento, messo in luce nella relazione della Paoletti, dal tutto alle parti, proprio dell’interpretare.

Questo rapporto con ciò che non è commensurabile, disponibile, manipolabile – rapporto che, come si vede da alcune radici proprie del verbo “ascoltare”, implica un’obbedienza, una dipendenza da ciò che si ascolta, rapporto che, secondo il linguaggio della tradizione occidentale, può esser detto rapporto con l'”essere” – è stato svolto nella relazione di Mathieu con particolare attenzione all’opera d’arte, come ciò che governa l’azione del creatore artistico così come poi quella dell’interprete. L’opera d’arte è quell’essere, o quel senso, che impegna l’interprete in tutta la sua individualità e specificità (fin dall’interprete-creatore), senza che questa individualità possa autorizzare l’idea di un’arbitrarietà e artificialità dell’interpretazione, sempre esposta all’errore, non l’errore della scienza esatta, ma l’errore di una peculiare forma di infedeltà all’essere che richiede di essere interpretato.

La relazione della Paoletti ha allargato lo sguardo, sempre su questa impostazione di fondo, anche all’ambito giuridico e a quello psicanalitico: nell’ambito giuridico il giudizio del giudice è sempre “determinante” e “riflettente” (per usare la terminologia kantiana), applica cioè un universale per un verso, per l’altro considera un fatto interrompendo, ad es. con la sentenza, un processo che di per sé non ha termine. La natura processuale del reale, così come la sua inesauribilità, emerge anche dalla pratica psicanalitica e psichiatrica, pratica di confine tra l’ambito delle scienze esatte e quello filosofico. Qui, come per l’ambito giuridico, l’essere da interpretare è il caso umano come tutto, caso che, nell’ambito psicanalitico e psichiatrico, si manifesta soltanto linguisticamente.
Tutti questi ambiti interpretativi, nella diversità delle tecniche, manifestano una stessa struttura: il riferimento a qualcosa che va ricercato, è ignoto, non definito, ma non tanto indefinito da consentire percorsi arbitrari, da non implicare un’obbedienza, una fedeltà, si tratti di ricostruire o interpretare il senso di una creazione artistica, si tratti di interpretare un caso giudiziario o una patologia psichica.
Questa la conclusione comune delle due relazioni, pur nella specificità dei percorsi – di riflessione su quella struttura nei suoi termini ontologici (Mathieu), di collocazione al centro delle diverse ermeneutiche di un nucleo costituito dall’ermeneutica del soggetto umano (Paoletti).

Su questo impianto generale si sono innestate le riflessioni introduttive alle singole sessioni del Prof. Francesco D’Agostino, per l’ambito giuridico, del Prof. Sergio Givone, per l’ambito estetico, e del Prof. Antonio Lambertino, per l’ambito psichiatrico e psicanalitico.

Partendo dal problema dello spazio dell’interpretazione in ambito giuridico come spazio messo in questione, almeno dal positivismo giuridico, D’Agostino ha illustrato come in quest’orizzonte culturale veniva delimitato l’ambito dell’interpretazione, anzitutto residuale, riguardante cioè i lati oscuri dell’ordinamento, da regolare rigorosamente con canoni interpretativi, e da regolare anche rispetto alle diverse funzioni dell’interpretazione, scientifica o applicativa. Anche in un diverso orizzonte culturale, che si è lasciato alle spalle il logicismo giuridico, vanno comunque riconosciute diverse funzioni dell’interpretazione, del legislatore che propone e impone l’interpretazione, del giurista che propone, del giudice che impone. D’Agostino ha indicato anche diversi criteri che regolano l’interpretazione in queste diverse funzioni: il circolo ermeneutico (l’ermeneutica riconosce un dato di partenza con la sua specificità; nel diritto è il sistema normativo, ma anche le aspettative di giustizia), l’applicazione (intervenire sulla realtà per modificarla), la fedeltà, che fa capo all’essere che in quest’ambito si configura come il diritto stesso, il diritto naturale della tradizione classica.

Nel suo intervento il Prof. Givone ha tratteggiato due movimenti contrastanti a suo avviso caratterizzanti l’estetica contemporanea: un movimento in avanti, che mette in parentesi il bello e fa dell’estetica un paradigma epistemologico, un atteggiamento verso le cose, corrente esemplificabile nella ricerca di Wolfgang Welsch con il suo Ästhetisches Denken; e un movimento all’indietro che risale alle radici epistemologiche dell’estetica, verso quindi una teoria del sensibile – una linea di ricerca espressa in Italia ad es. da Perniola. Rispetto a questi due movimenti Givone ha proposto una sua tesi articolata in tre punti.

1) L’esperienza estetica ha carattere interpretativo, nel senso che il problema dell’interpretazione si è posto anzitutto a proposito dell’esperienza estetica. L’attività estetica è dunque interpretativa in senso eminente, in essa tutto rifluisce nell’interpretazione, anche ciò che inizialmente appare non interpretabile.
2) Rispetto alla affermazione di Nietzsche che tutto è diventato favola è possibile riconoscere carattere veritativo all’esperienza estetica, una verità che naturalmente è altra da quella della scienza, ed è altra anche rispetto alla tradizione metafisica.
3) Questa verità è per Givone la verità Kat’exoken, che sfugge alla coppia identità-differenza, identica a se stessa, che sopporta in sé la contraddizione e il cui risultato è il pensiero tragico (nell’accezione di Luigi Pareyson), dove cioè è messa in gioco la conflittualità.

Infine nella sua relazione il Prof. Lambertino ha caratterizzato la pratica psicanalitica come l’incontro di due universi emozionali che entrano in empatia, ponendo poi il problema del rapporto tra psicanalisi e valutazione morale, valutazione che deve rimanere fuori dalla psicanalisi se lo psicanalista non vuole abdicare al suo compito, e ponendo anche il problema della legittimità dell’intervento dello psicanalista al di fuori della sfera di ciò che si manifesta come patologico. Da questo giro d’orizzonte è emerso, come tema di dibattito, un primo problema costituito dal rapporto tra questi ambiti di sapere, di esperienza, di pratica, ed altri non rappresentati in questo seminario: si può sbrigativamente dire che nell’ambito delle scienze esatte non si dà interpretazione? o si può dare patente di oggettività a ciò che viene definito nell’ambito delle scienze esatte? Detto altrimenti: è il problema della comunicazione tra branche di sapere, che in taluni casi appare estremamente facile, mentre ad una considerazione complessiva si presenta come una vera e propria sfida per l’ermeneutica.

L'interpretazione nell'arte

Le due relazioni della sessione dedicata all’estetica hanno prospettato due percorsi avvicinabili ai due movimenti caratterizzanti l’estetica descritti sinteticamente da Givone nel suo intervento. Il Prof. Reiner Wiehl nella sua relazione (L’interpretazione delle emozioni) ha proposto un’ermeneutica come interpretazione delle emozioni, nel senso quindi di una analisi della sensibilità come terreno d’incontro dell’estetica, della psicologia e dell’etica. In quest’ermeneutica bisogna fare però una distinzione tra interpretazione primaria e secondaria: l’interpretazione scientifica è sempre interpretazione secondaria, ma non c’è un’interpretazione in senso assoluto, l’individuazione di un dato semplice, di un’emozione, ha sempre a che fare con un senso e un non-senso, con un essere razionale e al tempo stesso non esserlo. L’intera tradizione filosofica fa i conti con quest’ambivalenza inseguendo una razionalità dell’estetico, indicata esemplificativamente attraverso la trattazione degli affetti in Spinoza e Kant. In conclusione Wiehl ha indicato quattro qualità essenziali rinvenibili in un’interpretazione delle emozioni, tutte con un contenuto ambivalente: l’ambiguo, il cieco, l’ignoto, la stravaganza. Il rapporto instaurabile tra queste qualità, questo tessuto elementare di emozioni, e la responsabilità morale, costituisce per Wiehl una via complicata, talvolta senza sbocchi, talvolta diretta. Qualsiasi via però non può trascurare questo tessuto elementare.

La relazione di Wolfgang Welsch (Incommensurabilità: problemi di ermeneutica dell’arte) ha scandito due momenti: nel rapporto tra produzione artistica e interpretazione filosofica di tale produzione si assiste, con il sorgere dell’estetica come disciplina filosofica, da Baumgarten a Hegel, non esclusa la stessa estetica schellinghiana, ad una tendenza alla sostituzione all’arte della sua interpretazione filosofica. A fronte di quest’estetica, con la quale, per Welsch, non abbiamo nulla da fare, la storia della filosofia, in special modo con Adorno, indica una nuova direzione: anche se in Adorno permane la ricerca del contenuto di verità dell’opera d’arte, la convergenza in questo di arte e filosofia, quindi permangono elementi dell’estetica precedente, viene in luce anche il tema dell’intendere l’incomprensibile. Welsch, rispetto a questa sintesi di diverse tendenze presente in Adorno, ha aperto lo sguardo verso un’incommensurabilità più radicale tra produzione artistica e interpretazione filosofica, quella data dall’arte come interpretazione in sé, propria messa in questione (si pensi alla demolizione di precedenti forme di espressione nella scrittura di Joyce o nella musica di Cage), ma interpretazione anche del mondo esterno. L’opera d’arte si configura come autonoma struttura interpretativa, conclusa e al tempo stesso aperta. Questa stessa struttura Welsch ritrova nell’essere personale e nell’incommensurabilità propria dell’essere personale e questa comprensione dell’incommensurabilità sviluppa e supera l’opposizione all’estetica idealistica.

Tanto la proposta di un’ermeneutica delle emozioni, quanto la proposta di una radicale incommensurabilità tra produzione artistica e interpretazione filosofica hanno proposto come tema comune di riflessione il limite dell’interpretazione nelle sue varie sfaccettature: nell’ermeneutica delle emozioni esso si propone come ambito prelogico, o, come lo ha chiamato Wiehl, “preproposizionale”, un ambito certamente di difficile definizione (anche nel suo coglimento, che non si configura come coglimento soltanto di sensi o significati). Difficile anche perché è contestabile la sua natura del tutto non-interpretativa: si può veramente dire che nel sentire già non ci sia un’interpretazione?
Nella proposta di un pensiero estetico di Welsch lo spazio più ampio in cui è incluso l’estetico di nuovo prospetta problemi legati alla incommensurabilità con l’interpretazione filosofica: si può assumere il linguaggio come terreno dove comunque si dà produzione e interpretazione, internamente all’arte? e nel perpetuo chiudersi e aprirsi dell’opera d’arte e della persona come intendere l’identità? che ruolo ha questa categoria? La proposta di Welsch fa piazza pulita di alcune domande (cos’è l’estetica? cos’è arte?) che hanno senso soltanto calate in un preciso contesto temporale e culturale; anche una categoria come quella di identità va ricollocata (l’identità personale è per certi versi una pura datità che non ha a che vedere con il problema più profondo dell’identità nel tempo della persona, l’identità come passaggio).
Il linguaggio può essere assunto come terreno sul quale esercitare interpretazione nel senso inteso da Welsch, il linguaggio è il medio di ogni esperienza strutturata, ma rimane l’interrogativo sul carattere di “pensiero” del “pensiero estetico”, sulla compresenza dei due ambiti che il “pensiero estetico” tiene insieme, concettuale ed estetico.

L'interpretazione nel diritto

L’interpretazione nel diritto, avvertiva già l’introduzione del Prof. D’Agostino, si declina in molti modi, con diversità di funzioni. Da questo lato si può dire che interpretazione e diritto sono stati in connessione fin dai primordi della tradizione giuridica. La relazione del Prof. Rodolfo Sacco (L’interpretazione del diritto) ha richiamato ancora una volta questa pluralità di funzioni: stabilimento della norma, comprensione della norma, dichiarazione verso l’esterno del contenuto della norma, interpretazione come applicazione, ripercorrendo poi, nella coestensività di tradizione giuridica e interpretazione, alcune tappe del loro rapporto, dalle regole per l’interpretazione giuridica nel diritto romano, ai mutamenti indotti dall’illuminismo con l’introduzione del diritto razionale. Nell’interpretazione giuridica entra, con il diritto razionale, un terzo elemento – oltre il legislatore e l’interprete: i principi di ragione, principi ai quali si ispira l’interprete nel colmare le lacune o le zone d’ombra del diritto. La successiva evoluzione storica delle tradizioni giuridiche mostra un progressivo diversificarsi di scuole, dalla scuola storico-dogmatica in Germania, alla ripresa del positivismo giuridico in Francia, al metodo economico in auge nella tradizione americana dopo il secondo conflitto mondiale. Al di sotto di queste varie scuole si può però riconoscere un denominatore comune: la legittimazione del ruolo di legislatore dell’interprete, con il costituirsi, accanto alle norme scritte, di regole non autoritative, prodotte dalle diverse esegesi giuridiche e che entrano per varie vie in altre tradizioni, e formano per selezione del teorico un bagaglio di proposte e stimoli per il giudice chiamato a dare soluzione ad un problema. Per Sacco però l’interprete giuridico deve ancora ricavarsi un posto tra riproduttore della volontà del legislatore e creatore del diritto.

La riflessione sull’interpretazione del Prof. Giuseppe Zaccaria (Dimensioni dell’ermeneutica e interpretazione giuridica) si è collocata invece entro la recente svolta ermeneutica legata a Wahrheit und Methode di Gadamer, articolandosi nell’analisi di alcuni concetti chiave. Un primo concetto chiave è quello di tradizione: la tradizione giuridica è l’orizzonte attivo del diritto, che unisce in sé dimensione diacronica e sincronica e finisce con l’avere funzione normativa compensativa rispetto alle accidentalità storiche. Un secondo concetto è quello del “poter essere”: il poter essere è l’essere al mondo del diritto, il diritto non è qualcosa di fissato una volta per tutte, né sorge dal nulla, è piuttosto concretizzazione del concreto e storicizzazione di ciò che è già storico; la dimensione giuridica presenta così un carattere aperto, in essa si dà una molteplicità di interpretazioni. In questa apertura entrano però quelle limitazioni esprimibili dal binomio coerenza-normatività: la coerenza è il senso, la rete di significati; non si tratta della coerenza di un sistema formale, ma di una coerenza di contenuti, che unisce ambito intragiuridico ed extragiuridico. L’ermeneutica introduce una nozione di totalità non limitata a proposizioni, ma estesa alle cose. Un altro modo di esprimere questa coerenza è la congruenza narrativa: qui i fatti sono una storia che si racconta. Un ultimo concetto infine: la contestualità. Coerenza e narratività sono possibili entro un contesto, un contesto che è dato da testi – e certamente l’interpretazione giuridica si muove dentro il linguaggio – ma oltre che da testi anche da istituti giuridici. Il diritto si configura così come una prassi interpretativa entro cui emergono le pretese di validità delle norme e dei valori giuridici, una prassi che ha unità di senso, ma esibisce anche una dialettica permanente tra l’ambito giuridico definito e l’ordine potenziale.

La relazione del Prof. Johannes Strangas (Il posto sistematico dell’interpretazione in assoluto ed i rapporti tra pluralità e fedeltà dell’interpretazione giuridica) ha inteso collocare la pluralità e la fedeltà, come momenti dell’interpretazione, in un ambito delimitato, quello della conoscenza applicata, subordinato rispetto a quello della conoscenza a priori pura. La conoscenza a priori pura è la conoscenza che ha carattere dimostrativo, definita dalle condizioni di possibilità della conoscenza esatta e dell’agire correttamente; la conoscenza applicata consiste nella sussunzione di un caso reale o ipotetico nel complesso dei principi dati dalla conoscenza pura. L’applicazione è legata per Strangas alla nozione di imperfezione, analizzabile come imperfezione conoscitiva e imperfezione pratica. Strangas ha poi preso in esame il codice linguistico come non includente il contenuto della conoscenza a priori pura: quest’ultimo non dipende dai codici linguistici usati, ma dalla correttezza dimostrativa dei ragionamenti. Egli ha così inteso assumere una posizione differenziata rispetto al cosiddetto “Mentalismus” così come rispetto al “linguistic turn”. L’interpretazione, in quanto prende le mosse dal segno linguistico, si configura come una conoscenza che, seguendo la definizione kantiana, unisce lato storico e lato razionale, e si dirige verso un secondo livello conoscitivo, espresso dal rinvio stesso proprio della natura del segno, un livello che è soltanto razionale. Nell’interpretazione giuridica si pongono peculiari problemi di pluralità e fedeltà, risolti ad es. attraverso l’istituto dell’interpretazione autentica, cioè dell’interpretazione di un organo statuale preposto, o dello stesso legislatore; ma guardando a fondo il problema dell’interpretazione giuridica si coglie la dipendenza dalla conoscenza razionale come metro per valutare possibili infedeltà interpretative, la dipendenza dalla conoscenza razionale come fine ultimo della conoscenza storico-razionale. Nel diritto questa dipendenza è fedeltà alla certezza del diritto.

Il dibattito ha legato da un lato i temi emersi nella sessione con quelli emersi a proposito dell’estetica: il tratto di ambiguità proprio dell’interpretazione unisce i due ambiti, e l’interprete giuridico, come il critico in ambito estetico, avvia il suo compito con il realizzarsi di un’opera (l’opera d’arte e la sentenza del giudice). Dall’altro ha riflettuto sulle premesse dell’interpretazione giuridica, un problema posto in forme diverse dalle tre relazioni, anche nei loro aspetti più differenzianti, l’excursus storico di Sacco, la dimensione ermeneutica privilegiata da Zaccaria, la cornice trascendentalistica in cui si è mosso Strangas. Il diritto naturale potrebbe rappresentare quel presupposto che evita di relativizzare il ruolo dell’interprete, avendo cura però di intendere “diritto naturale” come insieme di regole implicite in un determinato sistema giuridico, fuori quindi dallo schema di invariabilità di un’altra consolidata accezione di “diritto naturale”; il diritto naturale è così riportabile ad altri presupposti culturali che entrano nell’interpretazione giuridica. La discussione sulle premesse – è stato osservato – si ripercuote sull’assunzione della legge come valida o meno, e questa considerazione carica di significato i modelli di riferimento: i problemi trattati mettono in questione il contesto soggettivistico e intersoggettivo dominante nella relazione di Zaccaria, ed assente invece in quella di Strangas? E che rilievo ha in ambito giuridico il riferimento all’ontologia chiaro invece nelle discussioni sull’estetica? Le risposte di Sacco e Zaccaria hanno, sul problema del contesto dell’interpretazione giuridica, confermato il carattere aperto dell’interpretazione in un contesto di prassi e intersoggettivo, ribadendo la diversità di proposte sul senso dell’interpretazione giuridica emerse dalla sessione.

L'interpretazione in psichiatria e in psicoanalisi

Le tre relazioni della sessione hanno proposto versioni diverse del ruolo di confine che la psichiatria e la psicanalisi hanno tra versante umanistico delle discipline tipicamente ermeneutiche, e versante scientifico delle scienze esatte, proposte venute sia da percorsi storici, sia da riflessioni su ciò in cui consiste oggi la pratica psichiatrica e psicanalitica. Accostando interpretazioni midrashiche e psicanalitiche il Prof. Gabriel Levi ha evidenziato il ruolo che la psicanalisi può assumere nel rileggere l’ermeneutica biblica (L’albero del conoscere il bene ed il male: interpretazioni midrashiche ed interpretazioni psicoanalitiche). Levi ha messo in parallelo la Bibbia come momento scritto dentro una tradizione orale e l’incontro con il caso umano da parte dello psichiatra, dove il caso è storia di una malattia dentro una storia umana, storia iscritta in una situazione. Nel leggere le varie storie la psicoanalisi ha proposto teorie diverse: Freud ha privilegiato un modello basato sulla libido, ponendo come scopo la liberazione dell’Io dai gravami del binomio norma-desiderio; la Melanie Klein ha invece assunto come impulso-base la fame e la conseguente necessità per il neonato di distinguere subito tra oggetti buoni e cattivi, distinzione ampliabile nel binomio persecutore-perseguito; Bion ha visto infine come dicotomia fondamentale quella tra angoscia catastrofistica e senso di onnipotenza, facendone discendere atteggiamenti conoscitivi ed emotivi. Anche rispetto a questi modelli la tradizione midrashica, nella sua lettura del peccato originale, visto come l’essere posto dell’uomo di fronte alla legge, offre la possibilità di parallelismi: l’identificazione di tre alberi diversi come l’albero del bene e del male (la vite, il grano, il fico) nella prima tradizione midrashica, è stata letta dal Maharal di Praga, nel XV secolo, precisamente nei termini traslati del rapporto mente-corpo, dell’onnipotenza e del desiderio, riportabili ai modelli psicoanalitici prima illustrati. L’individuazione di un quarto frutto, il cedro, da parte di rabbi Abba, è interpretabile come un superamento di soluzioni unilaterali: il cedro, come frutto rituale nella festa delle capanne, racchiude tutti i precetti, esprime l’accettazione della legge come accettazione del limite, quel limite che è proprio dell’atto creativo di Dio.

Il Prof. Bruno Callieri si è soffermato invece sulla pratica psichiatrica (La rilevanza epistemologica nella psichiatria di oggi). Callieri ha distinto sei campi importanti di discussione nella psichiatria attuale: quello del rigore formale, relativo alla struttura interna di discorsi che vogliano sfuggire possibili equivoci; quello della verifica sperimentale; quello definito dalla funzione dei modelli esplicativi e delle argomentazioni per analogia; quello del rapporto tra tecnica e scienza, soprattutto in psicodiagnostica; quello della storicità delle conoscenze psichiatriche; quello della psicopatologia filosofica, con i temi della spazialità, della temporalità, della corporeità, dell’inconscio e dell’intersoggettività. Illustrata la problematicità dell’attività ermeneutica in psichiatria, chiamata a leggere il testo che il paziente fornisce, anzi i diversi testi, le diverse redazioni che dà del suo caso, chiamata a leggere anche il non-testo, il silenzio, come ciò che è ugualmente significativo, Callieri ha contrapposto la tendenza a privilegiare l’osservazione psichiatrica come osservazione del paziente nella sua unicità irripetibile ad altre tendenze presenti nel panorama culturale odierno, che riducono la psichiatria ad una scienza naturale, escludendo il carattere di sfida personale e di rapporto intersoggettivo che ha l’interpretazione psichiatrica. Il coglimento dell’individualità senza rinunciare alla comprensione e spiegazione delle condizioni determinanti la sua patologia, è il nodo della psichiatria come scienza e come prassi. Una rassegna delle componenti fondamentali della psichiatria (dalla classificazione all’aspetto biologico della psichiatria, al lato intuitivo definibile come “occhio clinico”) conferma il carattere composito del metodo e la priorità dell’esperienza clinica e dell’incontro con il paziente nel mettere a frutto differenti impostazioni epistemologiche.

Il Prof. Alberto Gaston ha messo a fuoco nella sua relazione (Il problema dell’interpretazione in psichiatria) il tema dell’interpretazione in chiave storica. Nel succedersi delle varie culture infatti il rapporto con la malattia è stato diverso: dalla civiltà greca con la sua concezione della malattia come dismisura e l’elaborazione di una teoria degli umori, tra i quali il meno visibile e più incidente era l'”umor nero” (melaina colé), al Rinascimento che vede la malattia come espressione dell’anima umana. In tutta la storia umana però questo rapporto con la malattia è coglibile sotto l’unica prospettiva del significato naturale del sintomo, visto nella logica vero-falso. Per Gaston solo con Jaspers c’è il primo tentativo di superare questa concezione. A dispetto dell’esordio provocatorio della relazione, con la messa in questione della dimensione interpretativa in psichiatria, la conclusione del contributo di Gaston si è posta in linea con questo superamento del rapporto col sintomo entro un discorso apofantico. Considerando l’uomo e la malattia nella loro globalità è forse possibile, per Gaston, un approccio estetico alla malattia, dove “estetico” allude a quella terza via dell’estetica proposta da Givone nel suo intervento introduttivo.

Il dibattito ha proposto ancora la natura ermeneutica dell’analisi psichiatrica e psicanalitica: sia, richiamando la svolta verso l’interpretazione di Biswanger, nella richiesta di superamento di steccati tra modelli teorici diversi, sia sottolineando il momento dell’ascolto, anche quando questo ascolto ha la modalità della visione e della comprensione mediante il cosiddetto “occhio clinico”, sia, ancora, mettendo a fuoco il collocarsi dell’analista e del paziente entro una totalità di senso che li costituisce come soggetti nei rispettivi ruoli. E’ stato inoltre sottolineato il particolare rapporto stabilibile tra ricerca psicanalitica e esperienza della trascendenza: su questo la psicanalisi ha dato talvolta risposte insufficienti, talora risposte che manifestano un’intromissione filosofica che fa problema.

L'interpretazione e l'uomo. Conclusioni e prospettive

Gli interventi nella tavola rotonda conclusiva, dei Professori M. M. Olivetti, U. Perone, A. Poma e G. Riconda, si sono fatti carico del tirare le fila delle riflessioni svolte a proposito dei diversi ambiti interpretativi.

La riflessione conclusiva del Prof. Olivetti si è centrata sull’idea di fedeltà: fedeltà a che cosa? La risposta ‘fedeltà all’essere’ – ed in questi termini potrebbe essere letto tutto quanto è stato detto sull’incommensurabile con cui ha a che fare l’interpretazione – sembrerebbe addirittura retorica nella sua ovvietà, ma se per un verso l’infedeltà all’essere appare impossibile, per l’altro bisogna fare i conti con gli esiti antiumanistici dell’ontologia fondamentale, con l’impossibilità e l’impensabilità di un’etica. Un altro termine di riferimento potrebbe essere il soggetto, o, se si vuole, l’interpretante: in questo caso la fedeltà metterebbe in luce la struttura riflessiva dell’interpretazione. Per Olivetti il problema è costituito proprio da questa prima persona riferimento della riflessività, e da qui la sua proposta di una fedeltà ad un soggetto tra prima e terza persona, che assuma l’ulteriorità della riconoscenza e del riconoscimento. In relazione con il disegno culturale complessivo di Nova Spes, questa proposta di Olivetti, proposta che mette in questione la possibilità di parlare di un’essenza dell’essere umano, indica nella domanda religiosa, nel ‘che cosa mi è lecito sperare?’, la domanda che più si lascia alle spalle pericoli di paleosoggettivismo.

Il Prof. Perone ha cercato di chiarificare il senso ultimo, sul piano filosofico e nel disegno culturale complessivo di Nova Spes, di quanto emerso dal seminario, distinguendo tra interpretazione ed ermeneutica, la prima relativa ad un testo, una realtà, una questione che ciascuno incontra nel proprio settore disciplinare, la seconda da considerarsi come una corrente filosofica. Il senso del seminario non va visto nell’elaborazione di una teoria generale dell’interpretazione, quanto piuttosto sul sentiero di un’ermeneutica come tentativo di comprensione ontologica della modernità, che può avere anche tratti descrittivi, ma il cui intento non è solo descrittivo. L’ermeneutica nasce da una frattura, che non viene solo registrata, e il fondo del verificarsi di questa frattura è l’essere. Se il gesto ermeneutico è il recupero di un’unità a partire da uno stato insormontabile di estraneità, questo modello dovrà avere significato in altre discipline, essere strutturale per le diverse ermeneutiche, e si inquadrerà in un’ontologia della terra trovata (non promessa, nel senso ricoeuriano), progetto, invenzione che ritrova qualcosa in una costante tensione tra molteplicità di significati e senso ultimo.

Nel tirare le somme sui lavori del seminario il Prof. Poma ha individuato due tracciati divergenti, discriminati dall’accettazione o dal rigetto dell’affermazione che tutto è interpretazione. Biblicamente è l’alternativa tra la legge come parola esplicita, verità da interpretare, e la legge già come interpretazione di Mosé. Di qui il paradosso dell’interpretazione autentica o della possibile preclusione di un’interpretazione autentica. Infine Poma si è soffermato sul concetto di legalità, come principio di verità che è al tempo stesso principio normativo sia per l’attività produttiva sia per quella interpretante. L’interpretazione avviene entro questa legalità, senza che però vengano meno, almeno nell’interpretazione dell’essere, tratti di ambiguità.

Il Prof. Riconda nel suo intervento ha visto le giornate del seminario scandire progressivamente dei contenuti fondamentali: il carattere ontologico dell’interpretazione, e l’interpretazione come interpretazione dell’inesauribile. Un’ontologia dell’inesauribile è un’ontologia dell’essere che si affida. Una tale comprensione dell’essere di per sé non è priva di rischi, perché può portare all’oggettivazione o all’estenuazione, ma un’ontologia dell’inesauribile li evita. L’ermeneutica porta al pensiero tragico con al centro la libertà. E del resto l’interpretazione ha sempre una nota di angoscia. La tragicità è la tragicità dell’essere, Dio che si affida all’uomo. L’ontologia dell’inesauribile è emersa direttamente nella sessione di estetica, ma il rimando ontologico si può ricavare, filosoficamente, anche nell’ambito giuridico, e un discorso analogo può essere fatto per l’ambito psichiatrico e psicanalitico. Da queste riflessioni Riconda ha anche ricavato alcune possibili piste di ricerca: lo sbocco in un’ermeneutica religiosa, il problema del confronto con il mondo della scienza, il problema della filosofia stessa, come episteme o come commento al testo.

In linea con un tema sfaccettato quale quello dell’interpretazione, queste sintesi isolano temi fondamentali che hanno percorso i lavori, ma non un senso univoco: un punto d’accordo può forse essere rintracciato nella connessione stabilita tra ermeneutica e ontologia, escludendo quindi la possibilità che l’essere sia soltanto interpretazione. L’ermeneutica – è stato ribadito nel dibattito – è via di accesso ad un senso, un senso che però non è posseduto, ma soltanto sperato.

Pubblicazione:
AA.VV., Il problema della fedeltà ermeneutica. Nell’arte, nel diritto e nella cura dell’anima, a cura di V. Mathieu e L. Paoletti, Roma, Armando, 1998


Partecipanti: S. Amato, F. Bianco, E. Borgna, F. Brezzi, B. Callieri, L. Calvi, G. Carchia, F. Cavalla, D. Chianese, C. Ciancio, G. Corradi Fiumara, S. Cotta, F. D’Agostino, G. Ferretti, A. Gaston, S. Givone, A. Lambertino, L. Lepri, G. Levi, V. Mathieu, C. Muscatello, M. M. Olivetti, L. Paoletti, U. Perone, A. Poma, G. Riconda, A. Rigobello, M. Ruggenini, L. Russo, R. Sacco, M. Schiavone, J. Strangas, M. Trevi, P. Ventura, G. Villa, V. Vitale, V. Vitiello, R. Vizioli, W. Welsch, R. Wiehl, G. Zaccaria, S. Zamagni


Agenda:

VENERDI’ 20 Maggio
Sessione di apertura
Perché interpretazione?
Moderatore: Marco M. Olivetti

  • h. 17.00 Saluto della Fondazione Nova Spes
    • Vittorio Mathieu L’uomo animale che interpreta
    • Laura Paoletti L’emergere del soggetto umano dall’enigma dell’interpretazione
    • Introduzione alle sessioni
      Francesco D’Agostino – Sergio Givone – Antonio Lambertino
  • h. 19.00 Discussione
SABATO 21 Maggio
Prima sessione
L’interpretazione nell’arte
Moderatore: Sergio Givone

  • h. 9.30
    • Wolfgang Welsch Incommensurabilità: problemi di ermeneutica dell’arte
    • Reiner Wiehl L’interpretazione delle emozioni
  • h. 10,45 Intervallo
  • h. 11 Discussione
Seconda sessione
L’interpretazione nel diritto
Moderatore: Francesco D’Agostino

  • h. 15.30
    • Rodolfo Sacco L’interpretazione del diritto
    • Giuseppe Zaccaria Dimensioni dell’ermeneutica e interpretazione giuridica
    • Johannes Strangas Il posto sistematico dell’interpretazione in assoluto ed i rapporti tra pluralità e fedeltà dell’interpretazione giuridica
  • h. 17 Intervallo
  • h. 17,15 Discussione
DOMENICA 22 Maggio
Terza sessione
L’interpretazione in psichiatria e in psicoanalisi
Moderatore: Antonio Lambertino

  • h. 09.30
    • Gabriel Levi L’albero del conoscere il bene ed il male: interpretazioni midrashiche ed interpretazioni psicoanalitiche
    • Bruno Callieri La rilevanza epistemologica nella psichiatria di oggi
    • Alberto Gaston Il problema dell’interpretazione in psichiatria
  • h. 11 Intervallo
  • h. 11,15 Discussione

Sessione conclusiva
L’interpretazione e l’uomo. Conclusioni e prospettive
Moderatore: Vittorio Mathieu

  • h. 15.00 Tavola rotonda Marco M. Olivetti – Ugo Perone – Andrea Poma – Giuseppe Riconda
  • h. 16.00 Discussione

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