(Estratto da Paradoxa 1/2022)
Non solo di tradizione vive la destra: ci sono molte destre, alcune delle quali sono o sono state anti-tradizionaliste (il futurismo) e a-tradizionaliste (le destre economiche). E, per di più, ci sono molte tradizioni: il legittimismo dinastico, l’ortodossia religiosa, la gloria militare, la continuità storica nazionale, l’assetto gerarchico della società. Per non parlare delle accezioni esoteriche del termine ’tradizione’, che a destra sono a lungo circolate.
Se ’tradizione’ è un traditum, materiale e spirituale, ossia un complesso di pensieri e di azioni, di narrazioni e di riti, di valori e di memorie condivise, che vincola chi lo riceve non meno di chi lo tramanda, e che contribuisce a formare un’identità, una continuità e una consapevolezza storica, meno facile è definire ’destra’. A tale scopo si deve iniziare a chiarire che – come ho sostenuto nel mio libro Perché ancora destra e sinistra – le destre sono caratterizzate dalla percezione che l’ordine politico sia minacciato dal disordine e da chi lo fomenta; il che conferisce loro, volenti o nolenti, una postura dinamica e spesso aggressiva. Questa percezione di minaccia è la vera essenza della destra, che non può fare a meno del conflitto (nel caso della destra economica, della concorrenza, ma anche della lotta contro chi nega la centralità della concorrenza). Fra i diversi contenuti storico-empirici delle destre c’è anche la tradizione, certamente; ma sarà sempre una tradizione minacciata, da difendere. Il baricentro dell’argomentazione e dell’energia politica sarà sempre sulla lotta contro i perturbatori. Ma la destra potrà anche essere anti-tradizionalista senza cessare di essere ’destra’, perché anche in tal caso il cuore delle sue posizioni sarà la provocazione ultra-moderna, l’uccisione del chiaro di luna, e insomma, di nuovo, il conflitto.
Si dirà che anche la sinistra si impernia sul conflitto: certamente. Nella modernità le ideologie non ne possono fare a meno, in mancanza di una legittimità condivisa. Ma il conflitto è percepito a sinistra come un passaggio necessario a raggiungere una futura situazione pacificata, che in linea teorica è possibile, se l’analisi del presente e la strategia di lotta sono corrette. Nulla di simile a destra, che non riesce neppure a pensare la pace nel futuro, e semmai – appunto nel caso della destra tradizionalista – la colloca nel passato.
Proprio così, del resto, è nata la destra, generata dalla rivoluzione francese e dallo spettacolo incredibile della doppia legittimità – quella regia e quella nazionale, in lotta senza quartiere –. Coloro che come Maistre, Bonald il primo Lamennais, e poi Donoso Cortés – i controrivoluzionari cattolici – affermavano fosse intollerabile una società divisa politicamente in parti, in partiti radicalmente contrapposti (tanto da reputare questo dualismo di origine diabolica), si sono ritrovati, di fatto, a essere un partito tra gli altri: il partito della tradizione, della monarchia per grazia di Dio, il partito che sogna la società senza partiti, concordemente e gerarchicamente organizzata intorno all’alleanza di trono e altare, in un mondo che non conosce innovazione: Quod semper, quod ubique, quod ab omnibus è il motto – traslato dalla teologia alla politica – del più brillante di loro, Maistre (Bonald è diverso: tutto il suo sforzo sta nel pensare come il movimento della società possa essere incorporato nelle strutture politiche dell’Antico regime; mentre Donoso è spinto dal proprio estremismo al di là della stessa legittimità, vero la dittatura militare).
Di fatto, la tradizione si è necessariamente trasformata in tradizionalismo. Ideologia di destra in cui è centrale la percezione del pericolo che la tradizione – unico possibile fondamento dell’ordine – corre, per cause teologico-politiche (la modernità rivoluzionaria è figlia della Riforma). In cui il conflitto è la dimensione centrale. Potentissimo indirizzo politico francese, il tradizionalismo si è trovato a competere e a volte a confluire con altre tradizioni: la stessa rivoluzione è infatti diventata tradizione, ri-fondazione della nazione e suo terreno di sviluppo repubblicano; e tradizione – la tradizione dell’impero bonapartista – è diventata anche la gloria militare e civile di Napoleone.
In un contesto culturale sociale e politico molto diverso qual è quello inglese, l’impulso tradizionalistico di Burke – padre dell’aspra polemica contro la cesura costruttivistica, astratta e intrinsecamente instabile, in cui consiste la rivoluzione francese – assume come fondamento una tradizione meno statica di quella dei cattolici francesi, più storicista ed evolutiva; e quindi il tradizionalismo inglese – espressione di élites non sfidate da una rivoluzione simile a quella francese – diventa in realtà conservatorismo, anch’esso pienamente interno alle dinamiche della modernità, con funzione di rallentamento ma non di contrapposizione ideologica frontale. Forza di sistema e non antisistema.
Ancora diversa la situazione in Germania in cui un debole liberalismo deve accontentarsi di un ruolo subordinato nella costruzione dell’unità nazionale (un’unità sui generis, peraltro, com’è quella del Reich bismarckiano) centrata sul compromesso fra principio monarchico e costituzionalismo, ed egemonizzata da élites militari e nobiliari fortemente legate alla tradizione dello Junkertum – e quindi dei rapporti politici e sociali tipici del feudalesimo orientale: una tradizione che scompare (Weber ne registra in diretta lo sfaldamento), travolta dalla modernizzazione economica ma capace di lasciare un retaggio di superficiale adesione verso le istituzioni costituzionali e ancor di più verso quelle democratiche di Weimar. Una tradizione monarchico-feudale-militare, quindi; anche questa, in modi diversi, interna al sistema.
Tante tradizioni, caratterizzate da differenze storico-geografiche e da molteplici contenuti, e da un paio di nemici, in sequenza: il progresso – non materiale, ma come ideologia moderna gestita dai borghesi liberali –, e la rivoluzione incarnata dai socialisti (a cui i liberali aprirebbero la porta). Dove è diventato storicamente influente, cioè in Inghilterra e in Germania, e anche, ma in modo più contrastato, in Francia (qui il mito laico-repubblicano della rivoluzione è stato molto forte), il tradizionalismo non è stato nostalgia del passato ma, divenuto conservatorismo, è stato il segno che il potere politico (e in parte anche quello economico) era in mano ad élites solide, capaci di assicurare una ’circolazione’ non troppo traumatica anche nel passaggio dal regime tradizionale della proprietà al regime industriale, e di dare vita a istituzioni politiche abbastanza efficienti, così che attraverso il riferimento ideologico alla tradizione fosse possibile a uno Stato nazionale garantirsi una ragionevole chance di gestire i propri interessi strategici. La tradizione come base della evoluzione, insomma – come alternativa al liberalismo e, ovviamente, alla rivoluzione –.
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Il caso italiano è assai differente. L’Italia non ha conosciuto la rivoluzione come la Francia, né la relativa continuità dei ceti dirigenti come l’Inghilterra, né un retroterra feudale-militare gestito da un unificatore attivistico benché non progressista come Bismarck. Tutto poteva essere la destra in Italia tranne che tradizionalista. E infatti non lo fu.
Assumiamo che le forze politiche piemontesi e centro-settentrionali di estrazione liberale che sono state le principali promotrici del Risorgimento siano definibili di destra – una parte, almeno: i mazziniani certamente non lo erano –, anche se in realtà quello che nel ’decennio di preparazione’ si era formato nel parlamento sabaudo era un centro-sinistra (il ’connubio’ Cavour-Rattazzi, mentre la destra di Solaro della Margherita era all’opposizione). La Destra storica, e la sua erede, la Sinistra storica, trasformista e poi crispina e poi ancora giolittiana, era composta di notabili, aristocratici o borghesi, di cultura anglo-francese (nei casi migliori), massoni, laici, anticlericali, il cui obiettivo e il cui lascito storico è stata la formazione dello Stato unitario, il suo accentramento amministrativo, la lotta militare al brigantaggio (una sorta di Vandea su vasta scala, dai riflessi storici più importanti), la secolarizzazione dei beni ecclesiastici (di una parte, almeno), il pareggio di bilancio (a costi sociali sanguinosi), e la realizzazione delle principali infrastrutture (strade, scuole, ferrovie, ospedali), nonché un abbozzo di imperialismo coloniale. La Destra storica (e i suoi eredi borghesi) ebbe un ruolo importante nello State building, insomma, e anche nel nation building, ossia nell’individuazione di alcuni temi legittimanti della nuova compagine politica.
Il primo dei quali fu la deliberata opposizione ideologica all’accoppiata trono-altare che in forme differenziate era stata l’asse portante degli Stati preunitari (escluso il Piemonte costituzionale e, per motivi opposti, lo Stato pontificio – dove l’altare era anche trono –). Certo, l’unità fu fatta senza il popolo (che non c’era); certo, gran parte dei vecchi ceti dirigenti pre-unitari fu cooptata nel nuovo Stato, e furono lasciati inizialmente inalterati i rapporti economici e sociali; certo, prima di Giolitti non si può parlare di liberal-democrazia ma solo di un moderato liberalismo e di una rappresentanza politica pesantemente censitaria; ma altrettanto certamente non si può parlare di tradizione – tranne che con ciò non si intenda (estensivamente e, in fondo, con una forzatura semantica) la tradizione di subalternità sociale e culturale di larga parte dei regnicoli, inalterata per decenni – . La casa regnante non brillava di importanti glorie passate e presenti – troppe le sconfitte militari, nella prima e nella terza guerra d’indipendenza –; per di più, il re del nuovo Stato, Vittorio Emanuele II, volle mantenere la propria numerazione dinastica, ancora riferita al vecchio Piemonte. La legittimità era tutta nella costruzione dello Stato costituzionale, portatore di progresso: non quindi in un passato, in una tradizione ricostruita intorno a quadri da melodramma – dai Vespri siciliani a Francesco Ferrucci, dalla disfida di Barletta a Balilla, da Pietro Micca a Pisacane – ma nel futuro: la terza Italia doveva riscattare il Paese da secoli di decadenza e di disunione, e farlo uscire dall’arretratezza civile. Il Risorgimento in quanto tale era la tradizione da custodire e da implementare. Una tradizione di breve data, quindi, anzi appena nata: sabauda, liberale, nazionale – con tutte le debolezze che a queste specificazioni inerivano, nel caso concreto –.
La tradizione di lunga data – la nazione – non era una realtà storico-politica ma era ’inventata’ attraverso la qualificazione come ’italiana’ della storia culturale del Paese, ossia attraverso l’unificazione nazionale di esperienze ed espressioni che ’italiane’ non potevano in realtà essere, essendo piuttosto municipali, regionali, o ’cattoliche’; il meraviglioso pluralismo nazionale, il policentrismo della sua storia culturale, la molteplicità delle civiltà artistiche che nella penisola si sono sviluppate, interagendo ma anche differenziandosi, evidentemente non era (e non è) una unitaria tradizione politica da conservare – o da spezzare con una rivoluzione –. Anche la figura di Dante fu piegata – del tutto incongruamente ma con enorme successo di popolo – a vate dell’unità politica italiana. Ma certo non si poteva fare politica su questa esile (anzi, solitaria) figura.
L’unico fattore apparentemente politico che si trovava a disposizione dei ceti dirigenti della Destra – e poi della sinistra (e del fascismo) – fu il culto di Roma antica (la prima Italia): un passato facilmente politicizzabile, al di là dell’assurdo anacronismo che lo inficia, e che ne fa una tradizione del tutto mitica. E non a caso su di esso ha insistito anche iconologicamente la politica di ogni tendenza (la destra e la sinistra, insomma, tranne quella socialista). La seconda Italia, quella dei papi (soprattutto rinascimentali), poteva forse prestarsi – da parte sua – a essere il perno di una forza neoguelfa che facesse dell’Italia la portatrice di una tradizione universalistica, appunto cattolica (l’ipotesi di Gioberti); ma la stessa sede pontificia si sottrasse. Limitata e stentata fu la tradizione ufficiale, insomma – in parallelo e in antagonismo a essa se ne formava un’altra, di sinistra, centrata su Mazzini e Garibaldi, di presa popolare più diretta –. Troppo impegnata a costruire ex novo lo Stato e la nazione, e priva di una tradizione a cui rifarsi, la destra al potere non poteva permettersi di essere tradizionalista in senso proprio.
Il fascismo non fu di destra – certo, fu violentemente ostile alla sinistra e alla democrazia, e altrettanto certamente si alleò con i poteri conservatori ormai divenuti forti del nuovo Stato –, e non fu nemmeno tradizionalista: anzi si pose come iniziatore di un’era nuova. Il suo obiettivo era di sconfiggere la concorrenza socialista, cattolica, e comunista, nella gestione delle masse che, anche in seguito alla prima guerra mondiale, erano entrate sulla scena politica distruggendo le forze dei ceti liberali tradizionali (di destra e di sinistra borghese); nulla il fascismo pensava di dovere all’Italietta dei notabili che, fatto il Risorgimento – che certamente il fascismo non rinnegò –, non ne erano stati all’altezza (secondo un canone interpretativo risalente a Carducci). Eppure, le risorse della tradizione a cui il fascismo fece ricorso furono proprio quelle già impostate dai passati regimi politici – nazione, monarchia, cultura, Roma imperiale (ma certo non il liberalismo) – a cui aggiunse la Vittoria e tutto quanto in guerra si era formato (militarismo, arditismo, violenza, movimentismo). Alla tradizione già stabilita – apparentemente rafforzata, ma in realtà resa mitica e fasulla dalla propaganda e dai suoi nuovi strumenti – si affiancava quindi anche una forte proiezione all’avvenire, allo sviluppo economico e industriale, controbilanciato dalla esaltazione dell’Italia rurale. E, ulteriore novità, la tradizione si arricchiva anche dell’apporto del cattolicesimo, ormai lasciato alle spalle – con la Conciliazione – l’anticlericalismo liberale.
Troppe tradizioni, in verità, in contraddizione tra loro, e destinate a crollare con la disfatta militare e con il gesto politico collettivo che fondò una nuova tradizione: la Resistenza, che per l’Italia democratica ebbe oggettivamente il ruolo fondativo che il Risorgimento ebbe per l’Italia liberale, e la Vittoria per l’Italia fascista.
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Una tradizione, quella resistenziale, che si fondava su un martirologio in cui comparivano Amendola, Gobetti, Matteotti, Gramsci, Buozzi, don Minzoni; su Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema come tappe emblematiche di una tremenda via crucis; sulla data simbolica del 25 aprile come rinascita dell’Italia. Una tradizione evolutiva, quindi, ancora una volta proiettata in avanti, progressista di fatto, benché potesse facilmente riallacciarsi al Risorgimento, come capì subito la sinistra che si servì in vari modi del nome di Garibaldi quale richiamo a una tradizione nazional-popolare, eroica, generosa, e a tutti comprensibile. Infatti anche la sinistra (una sinistra gramsciana) ha a che fare, nel nostro Paese, con la tradizione, sia per stabilirla in chiave popolare liberandola delle debolezze che ne caratterizzavano l’interpretazione borghese, sia per inverarla superandola: «veniamo di lontano e andiamo lontano», diceva Togliatti teorizzando la democrazia progressiva (nella medesima logica di assunzione inverante, anche per Engels la classe operaia sarebbe stata l’erede della filosofia classica tedesca, dell’economia politica borghese, e dell’illuminismo). Del resto, anche il mondo democratico non social-comunista faceva del binomio Resistenza-Costituzione l’inizio di una nuova tradizione che saltava (ed escludeva) il fascismo e si ricollegava al Risorgimento – lo si vide nel 1960-61, quando il centenario dell’unificazione venne celebrato con sincera partecipazione –.
Nondimeno, la nuova democrazia repubblicana non era un contesto in cui fosse facilmente ‘appaesabile’ il concetto di tradizione in quanto tale: le tradizioni a cui si rifaceva il fascismo erano compromesse – alcune incolpevolmente – dal crollo della patria fascista. Il clima culturale, la legittimazione corrente della repubblica era il progresso, ancora una volta uno State building e un nation building; un ricominciare più che un ricevere un traditum. L’elemento di continuità – il perseguimento degli interessi strategici nazionali nel Mediterraneo – era fortemente limitato dalla sconfitta e dalle sue conseguenze in termini militari e di alleanza; e in ogni caso, anche se era praticato con abilità dai politici democristiani, non era presentato come ’nazionalismo’.
La destra, poi, era quasi del tutto fuori posto nell’Italia del dopoguerra. Nei primissimi anni dopo il 1945, infatti, ’destra’ era un agglomerato di forze reazionarie, che temevano il passaggio dell’Italia al campo comunista, e che erano disposte a tutto pur di evitare questa sciagura; con la vittoria delle Dc nel 1948 e con l’ingresso dell’Italia nella Nato nel 1949, quel tipo di timori venne meno, in parte; o meglio fu informalmente istituzionalizzato e criptato nei meandri dei servizi segreti, da dove uscì negli anni della strategia della tensione. La Dc, d’altra parte, come forza politica, ebbe molti ruoli, fra cui quello di raccogliere il voto anticomunista e moderato, ma non esibendo un’ideologia di destra e anzi utilizzando quei voti per una politica di centro che guardava a sinistra (con cautela). Dentro la Dc trovò rifugio l’unica tradizione italiana ancora operante: quella cattolica moderata, centrata su una vita familiare ordinata secondo moduli ricevuti da generazioni, e su una vita sociale composta intorno a forme di autorità personale, a deferenze di lungo periodo: una tradizione che la ricostruzione, il progresso e la secolarizzazione – di fatto dovuti allo sviluppo economico innescato proprio dalla Dc – spazzarono via già agli inizi degli anni Sessanta, e che il Sessantotto seppellì per sempre.
Definibili di destra erano soltanto i liberali, monarchici e missini; i primi in realtà furono normali conservatori, spendibilissimi in una politica democratica ma numericamente esigui: la loro tradizione era quella cavouriana risorgimentale, ma la loro vocazione era essenzialmente economica, legata alla impresa privata. Anche i monarchici si rifacevano a una tradizione effettiva, quella sabauda, indebolita però dalla condotta politica del re Vittorio Emanuele III, e in ogni caso tecnicamente anti-sistema; collocazione che era assai scomoda per quel tipo di elettori, che rifluirono in grandissima parte nella Dc o nel Msi.
Quest’ultimo – la vera destra italiana – era a sua volta un conglomerato complesso, fatto di reducismo nostalgico, di velleità meta-politiche evoliane, di spiriti socialmente reazionari e di altri, invece, rivoluzionari o eversivi, di nazionalismo occidentalistico a volte ultra-atlantico ma a volte anti-occidentale. Al di là dell’incongruenza implicita nel fatto che si definiva ’nazionale’ proprio la forza politica erede di chi aveva portato la nazione al disastro più grande della sua storia, questa destra era un insieme di idee e di interessi di solito esclusi e ghettizzati ma che di fatto si prestava a politiche ultra-moderate, quando la Dc ne aveva bisogno. Troppe tradizioni, in ogni caso – ma giganteggiava fra le altre quella fascista, a cui negli anni si aggiunsero, incongruamente, suggestioni fantasy –, poco o per nulla amalgamate fra loro; e nessuna tradizione riconducibile a famiglie ideologiche conservatrici o tradizionaliste di stile europeo ’storico’. Al crollo della prima repubblica questo bacino di voti fu sdoganato da Berlusconi, e Fini a Fiuggi nel 1995 si incaricò di guidare l’uscita di questo popolo dalla ’casa del padre’ (dalla tradizione fascista).
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La fine della Prima repubblica, della repubblica dei partiti, segna l’ingresso dell’Italia in un nuovo mondo: nel quale vi è un unico orizzonte materiale disponibile e pensabile, il capitalismo globalizzato nella sua forma neoliberista, e, per quanto riguarda l’Italia, il passaggio – difficilmente revocabile – all’euro. Di fatto ora destra e sinistra fanno a gara per governare questo complesso economico, con ben pochi margini di differenziazione reale. La destra è diventata destra economica, tutta profitto e concorrenza (a parole: in realtà le formazioni oligopolistiche sono sempre le preferite), e quindi il richiamo a qualsivoglia tradizione le è difficile; la sinistra, da parte sua, ha anch’essa ufficialmente abiurato la propria fede (che dagli anni Ottanta veniva del resto praticata con fervore sempre minore). Anche la tradizione democratico-resistenziale-repubblicana, mantenuta viva ufficialmente, ha progressivamente perso significato (benché forse non del tutto) presso la popolazione: la legittimazione della vita associata si è trasferita quasi tutta sul successo economico, sulla capacità del sistema di produrre e distribuire ricchezza. L’Italia oggi ha poche certezze e poche tradizioni.
Non molto evidente è il cleavage fra destra e sinistra su temi controversi come l’emergenza ecologica (dove l’iniziale scetticismo della destra si è molto ammorbidito davanti agli allettanti scenari economici che la transizione green dischiude), e davanti alla emergenza sanitaria, un ambito nel quale la maggiore prudenza (e l’attitudine più spiccatamente vincolistica e proibizionistica) della sinistra è stata sì criticata dalla destra, che oggi si presenta come più libertaria, ma senza che si andasse a un conflitto reale – che al 90 % dei cittadini vaccinabili sia stato iniettato il siero anti-Covid dimostra che su questo tema la distinzione politica non ha un ruolo rilevante –.
Al contrario, il confronto politico si è spostato sui valori, sui diritti civili, sulle memorie – che non sono tradizioni, cioè lasciti impegnativi, nel pensiero e nella prassi, quanto piuttosto emozioni selettive ed episodiche –. Così, la destra in Italia oggi difende il progresso tecnico e scientifico, il libero mercato e la struttura ordoliberista dell’euro (sono pressoché scomparse le posizioni scettiche al riguardo, rifluite semmai nel populismo), mentre alla tradizione – alcuni valori, o stili di vita, legati alla famiglia nella sua veste più consueta, con ruoli di genere ben definiti – si richiama con un clamore polemico che ha toni strumentali. Infatti, neppure la destra può chiudere la porta davanti alle novità che in quest’ambito affiorano: al più, si tenta di spoliticizzarle, di relegarle nella sfera privata, denunciandole come pericoli per la tenuta dell’ordine sociale (come è apparso a proposito del ddl Zan). L’accettazione dell’assetto economico esistente implica che non ci si possa sottrarre a parecchie delle sue conseguenze sociali e valoriali, soprattutto nella morale individuale. Però la destra interpreta queste conseguenze (fra cui anche l’immigrazione) con un occhio a pulsioni securitarie da ’maggioranza silenziosa’ – benché oggi quella maggioranza non taccia più –.
Certo, il confronto con la controparte liberal è aspro: ormai archiviati divorzio, aborto, unioni civili, tengono il campo questioni come jus soli, maternità surrogata, eutanasia, crimini d’odio, accoglienza dei migranti – per rimanere a tematiche che sono state oggetto di interventi legislativi, più o meno riusciti –. Resta aperto anche il conflitto sul ’politicamente corretto’ – sulle questioni di genere e sul rapporto con la storia nazionale, da un punto di vista linguistico e comportamentale prima ancora che legislativo –. Questo è in realtà un obiettivo polemico fin troppo facile, per la destra, che ha buon gioco nell’assecondare un fastidio diffuso verso esagerazioni e provocazioni: in questi ambiti la destra si rifà alla tradizione, ovvero contrasta, più o meno accanitamente (la destra è plurale, com’è evidente), le innovazioni che, anche a rischio del ridicolo, nascono da un desiderio di ribaltare i rapporti di potere storicamente incorporati nel discorso privato e pubblico. Più che una tradizione, in verità, si tratta di un ’senso comune’ popolare, che offre alla destra una facile base di consenso, ai limiti del qualunquismo. A quest’ultima tradizione anti-politica, oggi ravvivata e intensificata col nome ambiguo e impreciso di ’populismo’, guarda ora la destra in cerca di voti, per catturarne le pulsioni securitarie e/o anti-sistema e per utilizzarle dentro il sistema.
Insomma, oggi anche la destra fatica a individuare una tradizione e a utilizzarla politicamente: quella letteraria e artistica, un tempo veicolata dal Liceo Classico, non è specificamente di destra e in ogni caso non è vissuta come essenziale per la vita del Paese (il rigore degli studi non è di casa né a destra né a sinistra), se non in chiave turistico-economico-alberghiera. Quella storico-politica è per la destra non fruibile: non si può richiamare al fascismo, evidentemente – è anzi in atto l’emarginazione (anche se non ancora il pieno ripudio) dei residui fascistoidi e violenti –, e d’altra parte della Destra storica è probabilmente ignorata anche l’esistenza. L’esperienza della Dc centrista può essere rivendicata, ma non è un lascito di cui di solito si faccia vanto; per di più, l’affossatore del mondo democristiano è stato, con le sue tv e con la sua politica-spettacolo, proprio Berlusconi.
In verità, la politica oggi, tanto di destra quanto di sinistra, non cerca legittimazione in alcuna tradizione, né di pensiero né di azione – che equivale a dire che le ideologie tradizionali sono sulla via del tramonto –; mentre il nazionalismo è limitato all’ambito sportivo – un’importante formazione di destra ha a lungo sostenuto, propagandisticamente, le ragioni (si fa per dire) del secessionismo –, la politica, la società, l’educazione, vivono in un eterno presente, rissoso ma senza radici. Il che è funzionale al mantenimento dello status quo economico, per precario e contraddittorio che esso sia.
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Per rispondere esplicitamente alle domande poste dalla direzione della rivista, la destra oggi ha davanti a sé alcune opzioni. La prima è rimanere omologata al modello economico vigente – neo-liberismo e ordo-liberalismo –, dandone un’interpretazione ’sociale’ nel senso non tanto di ridurre le disuguaglianze che da lì hanno origine quanto di offrire compensazioni simboliche ed emotive al disagio realmente presente in larghi strati della società, attraverso un’interpretazione xenofoba e securitaria del risentimento di una parte della cittadinanza; oppure usando strumentalmente il cristianesimo in chiave anti-islamica come tradizione di civiltà. Una destra capitalistica e populista, insomma, orientata a una interpretazione illiberale della democrazia, e a una perenne lotta contro il ’politicamente corretto’ liberal.
La seconda opzione invece implica un grandissimo investimento politico e culturale, una trasformazione radicale, per puntare a un obiettivo ambizioso: sfruttare il «momento Polanyi» – la sfiducia della società verso il mercato e i suoi rischi – per riattivare una tradizione della quale la società comincia a sentire il bisogno, per risollevarsi dalle crisi economiche e sociali (pandemia compresa) che su di essa si sono abbattute, trasformandola in un coacervo di ’particolari’. La tradizione che ha visto forze pur diverse come la Destra storica e la Dc impegnate nello State building e in una gestione della politica che la vedeva capace anche di governare le forze economiche, pur senza accedere alle logiche dell’economia di comando.
Il primato della politica (democratica) non è più da tempo all’ordine del giorno per la sinistra, ma la destra può porsi il compito di restaurarlo, cioè di essere ’conservatrice‘ e ’patriottica‘ in modo tale che questi termini divengano reali riferimenti storici o intellettuali, e non solo suggestioni vaghe, approssimazioni dal valore emotivo. In concreto, si tratta di perseguire l’interesse nazionale con energia paragonabile a quella di Stati democratici come l’Inghilterra, la Francia, la Germania. Nulla di eversivo, quindi, neppure rispetto alla Ue, che potrebbe esser re-interpretata ma non abbandonata; ma un impegno, entro i vincoli dell’oggi (ma nessuna epoca è stata priva di vincoli), a rifare scuola e amministrazione, giustizia e sanità, a porre mano alle infrastrutture, a formare ceti dirigenti competenti ma non estranei alla storia e alla cultura nazionale, a gestire con consapevolezza le sfide geopolitiche che ci riguardano: dalla migrazione (che va risolta in Africa) alla dipendenza energetica (che richiede anche una soluzione domestica) alla sicurezza strategica in ogni dimensione. Sono compiti che paiono ovvii ma che possono comportare anche frizioni con alcuni Paesi della Ue, per affrontare le quali la destra dovrà essere pienamente legittimata e inattaccabile sotto il profilo della tenuta democratica. E quindi insieme alla tradizione statuale la destra dovrà recuperare anche quella costituzionale.
La difesa e il consolidamento dello Stato – che oggi è provato da un susseguirsi nefasto di crisi che paiono avviarlo a una triste decadenza – inserirebbero la destra nella tradizione politica italiana: ancora una volta più che col rivendicare una qualche legittimità passata, col costruire o rinnovare la tradizione dello State building. Nulla di hegeliano, in realtà: né i fratelli Spaventa né Gentile sono alle porte; semmai, si tratta di un compito analogo (non identico, ovviamente) a quello che Gramsci affidava alla sinistra in mancanza di una destra borghese e liberale all’altezza; un compito che oggi, data l’evoluzione della sinistra, potrebbe essere assolto (siamo sempre in un ambito ipotetico) da una destra popolare e democratica.
In questa seconda opzione la lotta contro il ’politicamente corretto‘ verrebbe inquadrata in un più generale tentativo della politica di contenere lo strapotere dell’economia: per il ’politicamente corretto‘ nulla è stabile, e tutto è metamorfico, plasmato dal potere politico e riplasmabile da contropoteri sociali, e ciò rivela la sua affinità essenziale – anche inconsapevole – con il neoliberismo, di cui accetta l’assunto della in-consistenza del reale, e di cui fa propria, appunto, la lotta contro ogni solidità e stabilità.
In conclusione, la destra anche senza fondarsi su assoluti, su dogmatismi, può candidarsi a fungere da «katechon», da freno, delle più gravi derive del nostro tempo, puntando sulla relativa stabilità – pur in un’epoca che si è consegnata alla potenza trasformatrice del capitalismo e della tecnica – di alcuni fattori politici essenziali: l’esigenza di tutelare gli interessi strategici del Paese, di rafforzare la sua capacità di persistere come identità civile e culturale, e di ridare alla politica il primato democratico che le spetta. Una politica di stabilità e di statualità che non è certo esonerata dal conflitto culturale e strategico, e che anzi ne accetta apertamente il rischio: questa è la tradizione statualistica, conservatrice, (moderatamente) conflittuale – in parte da recuperare e in parte da inventare – a cui la destra può rifarsi, da cui può ripartire.
Se poi ci si chiede quante sono le probabilità che la destra, al bivio come Ercole, scelga il cammino all’insù e non quello all’ingiù, la risposta va cercata nella cronaca e nelle scelte che stanno prendendo le forze politiche – destra, centro, sinistra –. «Dai frutti li riconoscerete», insomma; ovvero, più laicamente, il miglior modo per capire se il pudding è buono è mangiarlo.