(Editoriale di Paradoxa 4/2021)
In rimando al celebre paradosso visivo messo in opera da Magritte, che scrive Ceci n’est pas une pipe sotto un’immagine che rappresenta una pipa, si potrebbe riassumere paradossalmente il senso di questo fascicolo, dedicato alla riduzione del numero dei parlamentari realizzata dalla legge costituzionale 1/2020, con la formula ‘questa non è una riduzione’.
Il termine ‘riduzione’, infatti, non va preso alla leggera. Per coglierne appieno la portata va lasciato risuonare nel suo senso etimologico, che è quello della reductio, di un movimento di riconduzione di qualcosa a qualcos’altro che ha l’obiettivo di afferrare il significato più profondo, il nucleo o l’essenza, di ciò che viene ridotto. La riduzione è una traduzione, uno spostamento e una traslazione, capace di far apparire il senso di ciò che viene ridotto: esattamente come la riduzione in scala realizzata da una cartina geografica fa apparire, per la prima volta, la forma di un territorio che grazie ad essa diventa in qualche modo controllabile, percorribile, dunque sensato, ossia orientato in un certo senso o verso. È soltanto perché opera una riconduzione all’essenziale, rinunciando al superfluo, che ‘riduzione’ può assumere il significato, divenuto prevalente nel linguaggio ordinario, di diminuzione in senso quantitativo. Significato prevalente, ma del tutto subordinato sul piano concettuale: non perché è quantitativamente più piccola che la mappa dà senso al territorio, sebbene in virtù di una regola di corrispondenza ben precisa, tale per cui ogni singolo punto sulla carta diviene capace di esprimere o rappresentare un insieme di punti dello spazio reale.
In un confronto che prende sul serio ragioni e punto di vista dei proponenti della riforma (cui si dà spazio nel testo pubblicato in appendice), questo fascicolo mostra nel dettaglio come e fino a che punto la diminuzione del numero dei parlamentari abbia alterato la capacità del parlamento di ‘ridurre’ i cittadini, cioè di rappresentarli nel senso più pieno del termine. Al di là del fatto ovvio (ma non per questo irrilevante) per cui una diminuzione dei rappresentanti implica inevitabilmente l’aumento del numero di rappresentati di cui ciascuno dei primi deve farsi carico, è una complessiva restrizione del campo d’azione del parlamento che è in gioco. Se si tiene ben presente l’intero ventaglio delle funzioni che gli eletti sono chiamati ad assolvere (opportunamente esplicitate e rimeditate nel contributo di Valbruzzi), i contraccolpi sistemici del taglio appaiono subito concretizzarsi in una serie di squilibri di cui è necessario, volenti o nolenti, prendere atto: la divaricazione tra elementi proporzionali ed elementi maggioritari che rendono tanto urgente quanto difficile l’approvazione di una legge elettorale duratura (Pisicchio); la sfasatura tra gruppi parlamentari e partiti (Clementi); la contraddizione fra l’esigenza di rafforzare il principio che un parlamentare rappresenta la nazione nella sua interezza e la proposta di introdurre un vincolo di mandato (Sbailò); la sovrapposizione non del tutto controllata tra comunicazione istituzionale e politica da parte delle due camere. Ma lo squilibrio forse più insidioso, e reso ancor più macroscopico dall’emergenza pandemica, è rappresentato da quella tendenza dell’esecutivo a sostituirsi al parlamento, la quale innesca una tensione non salutare tra costituzione formale e costituzione materiale che chiede di essere sanata (Zampini e Malaschini).
Sarebbe ovviamente semplicistico limitarsi a cogliere in questi squilibri un insieme di effetti di cui il taglio dei parlamentari sarebbe la causa unica e univoca. Da tutti i contributi, ma in particolare dalla sofferta analisi retrospettiva di Cuperlo su come a questo taglio si sia potuti arrivare, emerge come la crisi della rappresentanza abbia radici profonde di cui, a sua volta, la riforma stessa è effetto; una crisi che va rintracciata nella progressiva erosione tanto della democrazia, quale luogo ideale di composizione dei conflitti, quanto della forma partito quale attore decisivo nella mediazione dei medesimi.
Alla fine della lettura, dunque, quello che in apertura viene suggestivamente descritto dal Curatore come incomprensibile cupio dissolvi di un parlamento quasi unanime nell’applaudire una riforma contro se stesso, apparirà al lettore un po’ meno incomprensibile e un po’ più fondato in cause e processi di lunga durata; apparirà, viceversa, ancor più efficace il termine crudo con cui tale riforma viene definita: «amputazione». E un’amputazione, per l’appunto, non è una riduzione.