Stefano Zamagni – Dei dilemmi etici della pandemia da Covid-19

(Estratto da Paradoxa 3/2021)

1.Introduzione

Due sono i principali tipi di crisi che è possibile rintracciare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che trae origine da un qualche conflitto che prende corpo in una determinata società, ma che contiene, al proprio interno, le forze del proprio superamento. Il che non implica che necessariamente l’uscita dalla crisi rappresenti un progresso rispetto alla situazione precedente. Esempi famosi di crisi dialettica sono quelli della rivoluzione francese, di quella americana, della rivoluzione d’Ottobre in Russia. Entropica, invece, è la crisi che tende a far collassare il sistema per implosione, senza essere in grado di modificarlo con le sue sole forze. Si pensi, ad esempio, alla caduta dell’impero romano; alla transizione dal feudalesimo alla modernità; al crollo dell’impero sovietico.

Perché la distinzione è importante? Perché sono diversi i modi di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica solamente con provvedimenti legislativi, con aggiustamenti di natura tecnica, con l’immissione di risorse economiche – pure necessarie – ma affrontando di petto la questione del senso. Ecco perché ci vogliono oggi, come ieri, minoranze profetiche che sappiano indicare alla società la direzione verso cui andare mediante un supplemento di pensiero e soprattutto di spirito. Ebbene, l’evento pandemico da COVID-19 ha innescato una crisi di tipo entropico, connotata di dilemmi etici nuovi che, nella pratica, prendono la forma di preoccupanti trade-off.

In questa sede, potrò occuparmi di due soltanto di questi: quello riguardante la scelta del criterio in forza del quale procedere alla allocazione, tra portatori di bisogni eguali, di risorse sanitarie scarse e quello concernente la vexata quaestio della brevettabilità dei vaccini salvavita. Va da sé che tante altre sono le situazioni dilemmatiche che questa pandemia iniziata da un virus aerobico di origine zoonotica ha fatto sorgere. Si pensi solo al trade-off tra salute ed economia, cioè tra costi epidemiologici e costi economici, o al trade-off tra nazionalismo sanitario e solidarietà internazionale e altri ancora. Non v’è da stupirsi di ciò, solo che si consideri che un’epidemia è un fenomeno sociale che influisce su tutti gli ambiti della vita associata. Come il celebre filosofo della scienza Thomas Kuhn ci ha ricordato, raramente i paradigmi cambiano durante le emergenze; ciò in quanto rivolgiamo le nostre energie alla ripresa di una ‘normalità’ sperimentata nel passato – la cosiddetta restitutio ad integrum. Quando ciò accade, si rischia di formulare risposte prima che le vere domande siano individuate. Ecco perché c’è bisogno di un pensiero interrogante che si alimenti di critica e di autocritica.

L’intrigante bivio di fronte a quale si trova oggi il nostro paese è quello riguardante la scelta della strategia d’uscita dalla crisi attuale. Due, basicamente, le opzioni. Per un verso quella del ritorno alla situazione precedente la crisi, realizzando gli aggiustamenti necessari. È il modello della ‘nuova normalità’, noto come modello dell’alluvione: si attende che l’acqua rientri nell’alveo del fiume che è esondato; si rinforzano in qualche modo gli argini dello stesso, dopodiché si lascia che l’acqua scorra come in precedenza (il ‘business as usual’). Per l’altro verso, v’è l’opzione della resilienza trasformativa, il cui obiettivo è di accrescere la capacità di resistenza del sistema per far fronte a crisi future che già sappiamo che si verificheranno. Se la prima opzione ha di mira la fragilità, la seconda persegue l’obiettivo di ridurre la vulnerabilità del sistema (vulnerabile è chi può ricevere delle ferite. La vulnerabilità, dunque, non va confusa né con la fragilità, che riguarda l’inconsistenza delle cose, né con la precarietà, che designa il carattere transitorio di una situazione). Penso non vi siano dubbi intorno all’opzione da privilegiare. Perfino il conservatore più spinto non può non ammettere che a poco varrebbe fare lo sforzo di accrescere la resilienza se il fine fosse meramente quello di conservare l’ordine sociale pre-esistente.

Prima di entrare nel merito dei dilemmi etici di cui sopra ho scritto, reputo opportuno dedicare i prossimi due paragrafi a chiarire due questioni di carattere generale, eppure afferenti il caso in questione.

2.Sindemia e capitale civico

La scoperta – si fa per dire – che la salute di ciascuno dipende da quella di tutti gli altri significa che la salute è, tecnicamente, un bene comune globale, vale a dire né un bene pubblico né un bene privato, e come tale va gestito. Già la scienziata politica americana Elinor Ostrom aveva anticipato nel suo celebre Governing the commons del 1990 che la gestione di un bene comune non può essere né di tipo privatistico né di tipo pubblicistico, né ancora di tipo misto, sia pure in qualche modo aggiustati, ma di tipo comunitario. Quanto a dire che il modello di riferimento non può essere quello bipolare ‘Stato-Mercato’, ma quello tripolare ‘Stato-Mercato-Comunità’, secondo il quale tutti e tre gli attori devono interagire tra loro, su basi paritetiche, nelle fasi sia della co-programmazione sia della conseguente co-progettazione. In buona sostanza, si tratta di applicare il principio di sussidiarietà circolare, la cui valenza va oltre quella della sussidiarietà orizzontale. È veramente paradossale che tale principio di governance, per primo ideato nel nostro paese alla fine del XIII secolo ad opera di Bonaventura da Bagnoregio stenti ancora ad essere accolto e soprattutto messo in pratica in Italia (la Ostrom riceverà il premio Nobel dell’economia nel 2009, proprio per il suo magistrale contributo alla tematica dei beni comuni. Cfr. P. Donati, G. Maspero, Dopo la pandemia. Rigenerare la società con le relazioni, Città Nuova, Roma 2021).

Quale la rilevanza concreta di tale sottolineatura? Quella di farci afferrare le ragioni per le quali quella tuttora in atto non è una pandemia, ma una sindemia, termine per primo introdotto dall’americano Merrill Singer nel 1990. La sindemia, basicamente, è una sintesi di più epidemie. Nel nostro caso, si tratta del cambiamento climatico, del peggioramento delle condizioni di benessere della popolazione associate all’aumento endemico delle diseguaglianze e ovviamente del coronavirus. In un saggio, rimasto famoso, del 2017 pubblicato sulla prestigiosa rivista The Lancet, Singer et. Al. spiegano perché è necessario adottare l’approccio sindemico per studiare le conseguenze sulla salute umana delle interazioni tra i tre fattori causali di cui sopra (l’Enciclopedia Treccani ha introdotto il lemma «sindemia» per la prima volta nell’edizione del 2020).

Va dunque ribadito che il COVID-19 non solo non è un «cigno nero», dato che era stato previsto da tempo, ma neppure è uno shock esogeno. Esso è piuttosto un frutto bacato dell’albero dell’antropocene e, in particolare, di un’economia estrattiva che, per un verso, va distruggendo, anno dopo anno, la biodiversità (termine coniato dal biologo Thomas Lovejoy tre decenni fa) e per l’atro verso, va accrescendo le diseguaglianze sociali. La distruzione della biodiversità naturale, lo sviluppo dell’agricoltura intensiva, la deforestazione facilitano la diffusione di epidemie come quella attuale. Distruggendo gli ecosistemi, liberiamo i virus, specie quelli aerobici, dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, questi virus hanno bisogno di un nuovo ospite. Spesso, quell’ospite siamo noi. Il nesso tra zoonosi e degrado ambientale è oggi confermato da tutti i più prestigiosi centri di ricerca: OMS, FAO, CNRS etc. Kate Jones (University College, Londra) già nel 2008 aveva identificato 335 malattie emergenti a scala globale nel periodo 1940-2004 originate dal degrado ambientale (Cfr. R. Fuentes et Al., Covid-19 and Climate Change: a Tale of two Global Problems, «Sustainability», 12, 20, 2020).

Generalizzando un istante, è bene insistere sul fatto che le epidemie affliggono le società attraverso le vulnerabilità che gli esseri umani creano per mezzo delle loro relazioni con l’ambiente, con le altre specie viventi e tra loro. I microbi che innescano le epidemie sono quelli la cui evoluzione ha reso adatti alle nicchie ecologiche preparate dagli uomini che vivono in società. Il coronavirus ha potuto diffondersi nella maniera di cui sappiamo, perché esso ha trovato il suo fitting (adattamento) nel tipo di società che noi abbiamo edificato: megalopoli semplicemente disumane, aumento sistemico delle diseguaglianze che spingono i gruppi meno abbienti a cibarsi della carne di animali selvatici acquistati nei wet markets; una urbanizzazione frenetica che distrugge gli habitat animali e altro ancora. In particolare, l’aumento dei contatti con i pipistrelli – animali che sono una riserva naturale di innumerevoli virus capaci di attraversare le barriere di specie e di riversarsi sugli uomini (cfr. Frank Snowden, Epidemics and Society, Yale University Press, 2020). È ormai certo che le pandemie a venire saranno delle zoonosi, cioè delle infezioni virali che riescono ad infrangere le barriere fra le specie per propagarsi dall’animale all’uomo in seguito agli sconvolgimenti ecologici (M. Honigsbaum, Pandemie. Dalla Spagnola al COVID-19: un secolo di terrore e ignoranza, Ponte alle Grazie, Firenze 2020).

David Quamman (Spillover. Infezioni animali e la prossima pandemia, Adelphi, Milano 2012, ed. originale 2010) oltre dieci anni fa aveva anticipato la pandemia, previsione poi confermata da Antony Fauci. Nel 2015, la OMS pubblicò il Global Influenza Preparedness Plan, dove erano specificate le linee guida e i suggerimenti pratici per far fronte a scoppi epidemici. Non solo non se ne fece nulla, ma vennero addirittura ridotti i fondi assegnati alla OMS. Infine, nel settembre 2019, quest’ultima pubblicò il Rapporto A World at Risk, nel quale venivano elencati gli strumenti di contrasto (respiratori polmonari, posti di terapia intensiva, mascherine, distanziamento fisico e altri) che sarebbe stato urgente predisporre in vista dello scoppio prossimo venturo dell’epidemia. Nessun paese, a cominciare dal nostro, se ne diede per inteso e tre mesi dopo iniziava il disastro! Come si è potuto allora far credere che il COVID-19 rappresentasse un caso del tipo «cigno nero», un evento cioè imprevedibile?

Nassim Taleb, lo scienziato libanese che, all’epoca della grande crisi finanziaria del 2007-08, divulgò l’espressione «cigno nero» – espressione per primo introdotta da Aristotele – si è avvalso della metafora del tacchino per dare conto della sprovvedutezza dei tanti gruppi dirigenti nei nostri paesi. Con riferimento alla metafora di Bertrand Russell del tacchino induttivista, Taleb narra la storia del tacchino messo all’ingrasso, che finisce col credere che il padrone sia lì per nutrirlo per tutta la vita. Quando arriva il giorno del Ringraziamento, per il tacchino quel giorno è un cigno nero. Non così però per il padrone. Il COVID-19 è stato un cigno nero solo per i colpevolmente irresponsabili.

Quanto precede mi serve per porre in luce l’importante distinzione – di cui raramente si tiene conto quando si parla di prevenzione volta alla rimozione dei rischi – tra preparazione (preparedness) e prontezza (readiness). Nel 1989, Stephen Morse organizza la «Conferenza di Washington» sui virus emergenti, al temine della quale vengono fissati i criteri per identificare e prevenire le epidemie. È in quella sede che viene fissato il dispositivo della preparedness. Mentre le misure per garantire la preparazione sono compito esclusivo dei soggetti legittimati all’esercizio del government – cui spetta il potere di emanare i provvedimenti del caso – i processi che mirano ad assicurare la prontezza di risposta di fronte ai disastri naturali, e tale è la pandemia, sono di spettanza prioritaria della società civile organizzata, dei corpi intermedi della società, come li chiama la nostra Carta Costituzionale. La prontezza nel dare efficace esecutorietà alle norme giuridiche e alle linee guida fissate dal centro nazionale ha a che fare con la governance ed essa dipende sia dal livello di health literacy della popolazione sia dalla relazione che si riesce ad instaurare tra il sapere del mondo scientifico e il sapere esperienziale dei cittadini (la c.d. citizen science). Non basta dunque che i territori siano adeguatamente ‘preparati’, nel senso sopra precisato, per conseguire l’obiettivo desiderato. Quel che in più si richiede è che le comunità locali siano capaci di innovazione sociale, se si vuole che i vari dispositivi non restino sulla carta (community readiness) (cfr. R. Pozzo, V. Virgili, Preparazione e prontezza, «Paradoxaforum», 7 dicembre 2020 [NdR consultabile al link: http://www.paradoxaforum.com/preparazione-e-prontezza/]). Una recente indagine empirica suggerisce che il successo di interventi non farmaceutici nel contenere la diffusione del coronavirus dipende in grande misura dall’adesione volontaria da parte dei cittadini alle disposizioni del government (uso delle mascherine, rinuncia agli assembramenti e così via). A sua volta, l’adesione volontaria è funzione del livello di capitale sociale e capitale civico presente nel territorio (cfr J. Barrios et Al., Civic Capital and Social Distancing during the Covid-19 Pandemic, «NBER WP 27320», June 2020).

Il punto generale che desidero fissare è che se si vuole raggiungere in tempi rapidi l’immunità di gregge, dobbiamo maggiormente fare leva sui soggetti della società civile portatori di cultura, la cui missione primaria è quella di contrastare la diffusione di notizie false, soprattutto in ambiti come quello riguardante l’efficacia delle vaccinazioni. Invero, sono questi soggetti che, praticando il counterspeech, possono cercare di contrastare le «camere dell’eco» create dagli algoritmi – camere nelle quali si ritrovano persone che la pensano allo stesso modo, polarizzando i no-vax nelle loro convinzioni. Nei confronti poi della «miopia metacognitiva» – per la quale tratteniamo l’informazione primaria, non quella che la smentisce – la «moral suasion» sistematica praticata dagli enti di Terzo Settore è essenziale per affiancare gli interventi del legislatore e del policy-maker. Si rammenti che divieti, censure, obbligazioni varie rischiano, da soli, di risultare controproducenti perché danno alle falsità maggiore forza diffusiva (come bene chiarisce Cass Sustein, Liars. Falsehoods and Free Speech in an Age of Deception, OUP, 2021, se si prevede che domani pioverà e poi ci viene detto che quell’informazione non è affidabile o è errata, in noi resta fissata l’idea del maltempo e ci comporteremo di conseguenza: appunto un caso di miopia metacognitiva). A tale riguardo, conviene ricordare che la scienza non è la stessa cosa della ricerca. La prima è un corpus di conoscenze e di risultati acquisiti una volta per sempre (la terra è rotonda!). La ricerca invece affronta questioni di cui non è ancora nota la risposta corretta (chi ha contratto il virus può essere di nuovo infettato?) Perché è importante la distinzione? Per non cadere vittime – come purtroppo è accaduto – di proclami auto-promozionali e di logiche mediatiche implacabili.

3.Perché rifiutare la logica del trade-off negli eventi pandemici

Il secondo chiarimento cui ho fatto cenno nell’Introduzione riguarda il modo in cui il trade-off tra salute e ricchezza è stato finora affrontato, in una pluralità di occasioni.

Non vi è dubbio alcuno che la SARS-COV-2 abbia rappresentato e tuttora rappresenti una formidabile sfida alla politica. Per la prima volta dal secondo dopoguerra, infatti, i policy maker dei vari paesi si sono trovati di fronte a tre grosse situazioni dilemmatiche. Primo, come disegnare interventi efficaci per ridurre la diffusione dei contagi e al tempo stesso minimizzare i costi di natura economica degli stessi provvedimenti. Secondo, come misurare l’entità del trade-off tra la salvaguardia delle vite umane e la conservazione della capacità produttiva del sistema economico. Infine, su quali categorie e gruppi di persone deve ricadere il peso economico degli interventi. Come si può comprendere, occorrerebbe disporre di un modello in grado di fornire le informazioni necessarie per procedere all’implementazione dei provvedimenti da adottare, rispettando il criterio di equità. Ma un tale modello non esiste, ancora; ciò che spiega lo sconcerto di tanti e il sorgere di conflitti, pure aspri, in sede politica. Per fare un solo esempio. Policies volte a mitigare le conseguenze delle tante fragilità possono contrastare quelle volte a mitigare la vulnerabilità e questo per la semplice ragione che, mentre le prime postulano interventi di breve periodo, le seconde richiedono che si adotti un orizzonte temporale di lungo termine (D. Furceri et Al., Will COVID-19 Affect Inequality?, Covid «Economics», 12, 2020).

In assenza di un solido quadro teorico che valga a fornire un punto di riferimento utile per la soluzione delle tre problematiche di cui sopra, nell’ultimo anno la letteratura economica si è arricchita di nuove linee di ricerca. Ad una di queste desidero qui fare cenno, quella riguardante le individuazioni delle condizioni che definiscono un lock-down ottimale. Sulla falsariga dell’approccio inaugurato da Ronald Coase nel 1960 per trattare della questione ambientale, gli Autori in questione si sono occupati di definire le proprietà di un mercato dei diritti di infettare. Misurando costi e benefici delle alternative in gioco, l’idea è che ogni agente internalizzi il costo sociale delle sue scelte, per giungere a stabilire quale ha da essere il timing ottimale del lock-down. Una agenzia pubblica determinerà poi la quantità desiderata di diritti di infettare da immettere alla negoziazione e procederà poi alla loro vendita, avvalendosi del familiare meccanismo d’asta, proprio come avviene con il mercato dei permessi di inquinamento (cfr. A. Pestieau e G. Ponthiere, Optimal lockdown and Social Welfare, «NBER», novembre 2020). In tal modo, mercati competitivi per gli ‘infection rights’ assicurerebbero un risultato efficiente senza alcun bisogno di ricorrere ad interventi dirigistici. Secondo stime recenti dell’OCSE, la riduzione del livello di output conseguente a tre mesi di lock-down sarebbe pari a sei punti percentuali (cfr. A. Bisin, P. Gottardi, Efficient Policy Interventions in an Epidemic, «CEPR», novembre 2020).

Sorge spontanea la domanda: ha fondamento robusto un approccio del genere? No, e per un duplice ordine di ragioni. Primo, questa linea di ricerca non considera che una pandemia sempre restringe l’insieme delle possibilità produttive dell’economia; vale a dire che la frontiera pandemica si colloca sempre al di sotto della frontiera delle possibilità produttive pre-pandemia. Ne deriva che anche in assenza di lock-down non è possibile che il sistema riesca a mantenere i medesimi standard produttivi di prima. Non solo, ma sulla frontiera si viene a creare con la pandemia un incavo, il che implica che la capacità di generare più elevati livelli di salute pubblica si riduce quanto più si indugia a prendere provvedimenti restrittivi del tipo lockdown. Cioè a dire, attendere non lascia la situazione come prima. La deriva, infatti, procede solamente in una direzione, come i modelli epidemiologici documentano a tutto tondo. Pertanto, se si opta per intervenire con misure di contenimento, conviene farlo subito e non attendere settimane come invece si è fatto. Il messaggio da trarre è che la logica del trade-off al margine nel caso di pandemie non funziona affatto (si veda il testo di J. Gans, Economics in the Age of Covid, Cambridge (Mass.), MIT Press, 2020).

Tuttavia, l’obiezione più rilevante che sollevo è di natura etica ed epistemologica, ad un tempo. La ragione è che parlare di lockdown ottimale significa muoversi sul piano prescrittivo: l’intento infatti è quello di suggerire alle autorità di governo ciò che dovrebbero fare. Ma la «legge di Moore» (G. E. Moore, Principia Ethica, CUP, Cambridge 1903) statuisce che una prescrizione normativa non può essere dedotta da premesse solamente positive, il che implica che l’insieme delle premesse deve contenere almeno un giudizio di valore. In altro modo, un certo provvedimento può essere dichiarato accettabile sul piano dell’efficienza solo dopo che si sia specificato il fine in funzione del quale esso viene attuato. L’efficienza, infatti, appartiene all’ordine dei mezzi, non a quello dei fini. Ora, il giudizio di valore accolto – spesso supinamente – da chi si riconosce in tale linea di ricerca è quello dell’utilitarismo classico (di Cesare Beccaria e di Jeremy Bentham): massimizzare la sommatoria delle utilità individuali. E allora? L’implicazione è l’accettazione di una specifica variante della Repugnant Conclusion (Conclusione Ripugnante), nel senso di Derek Parfit (Reasons and Persons, OUP, Oxford 1984): per qualsiasi lockdown che salva vite umane al costo di una riduzione del benessere medio della popolazione, vi è sempre un lockdown ancora più stringente che, mentre riduce ancora di più il benessere medio, accresce il benessere totale della popolazione. Quanto a significare che l’accoglimento della premessa di valore utilitaristica conduce a peggiorare la condizione di vita di chi sta peggio, il che contrasta con il criterio rawlsiano della giustizia come equità. D’altro canto, se per seguire quest’ultimo criterio, si vuole dare la priorità a chi sta peggio, il risultato che si ottiene è che occorre adottare un lockdown nullo. Donde il terribile dilemma etico: salvare vite umane o migliorare il benessere di chi occupa i gradini più bassi della scala sociale? Finora, nel nostro paese è stata scelta la prima opzione.

Come si vedrà nei prossimi paragrafi, alla radice di questo e simili dilemmi sta il fatto che vita e benessere non sono categorie tra loro commensurabili e dunque non è logicamente possibile istituire tra trade-off di sorta, per quanto edulcorati essi possano apparire. Analoga difficoltà sorge nel caso di altre pandemie, meno mediaticamente dirompenti, ma altrettanto preoccupanti di quella attuale. Si pensi alle cosiddette malattie non trasmissibili (tra persona e persona) che dipendono da fattori socio-economici e dagli stili di vita (ictus, malattie neurodegenerative, diabete, depressione, etc.). Secondo il Report Time to Deliver dell’OMS, queste malattie sono responsabili di circa 41 milioni di morti all’anno a livello globale.

4.Il razionamento delle cure sanitarie nella stagione della pandemia

L’evento pandemico ha riproposto con forza la questione riguardante la fissazione di criteri in forza dei quali si devono distribuire risorse sanitarie scarse (respiratori per la ventilazione polmonare; accesso alla terapia intensiva negli ospedali; distribuzione di vaccini, etc.) tra portatori di medesimi bisogni. Quale la sfida bioetica che sorge in casi del genere, destinati a diventare sempre più numerosi? Si consideri, a mo’ di esempio, il caso del triage: se il numero di pazienti da ricoverare è superiore a quello dei posti letto disponibili, il medico viene a trovarsi di fronte ad una «scelta tragica» (tragic choice) nel senso di Guido Calabresi. Di qui la tentazione di abdicare al principio della parità di trattamento di tutti gli individui, in palese violazione dell’intangibilità della dignità umana.

Per far luce sul problema conviene partire dalla considerazione che due sono i principali paradigmi bioetici, tuttora al centro di vivaci dibattiti tra i bioeticisti. Come suggerisce Francesco D’Agostino («Avvenire», 3 aprile 2021), si tratta del modello «principialista» e di quello utilitarista. Il primo adotta il seguente schema logico: si parte da principi assoluti e perciò inderogabili e tanto meno negoziabili; da questi si derivano poi criteri operativi da applicare alla miriade di casi in materia di ‘vita’ che la realtà presenta. Una applicazione recente di tale modello è stata avanzata da un nutrito numero di filosofi, epidemiologi, giuristi sulla rivista «Science» nel settembre 2020. È il fair priority model, il modello cioè delle priorità eque nell’allocazione delle cure anti-COVID. La priorità è definita equa quando sono soddisfatti i tre criteri seguenti: ridurre le morti premature; minimizzare le conseguenze negative di natura economica e sociale, accorciare i tempi per ripristinare la situazione pre-pandemica (cfr. C. Geppert, Whose turn should it be? The Ethics of COVID-19 Vaccine Allocation, «Psychiatric Times», 11 marzo 2021).

Quale il problema, non certo dei più facili, con una proposta del genere? La sua scarsa applicabilità sul piano pratico. La ragione è che non viene mai indicato se i tre criteri suggeriti vanno presi in ordine lessicografico oppure tutti e tre in modo simultaneo. Nella prima eventualità, il problema decisionale verrebbe solamente spostato su un altro piano: chi decide quale dei tre criteri viene prima dell’altro e quanto deve essere il grado in cui un criterio deve essere soddisfatto prima di passare all’altro? Nella seconda eventualità, la proposta avanzata risulterebbe pressoché irrilevante, trovando applicazione solamente a situazioni semplici e poco problematiche. Si consideri, a tale riguardo, che lo straordinario sviluppo delle scienze mediche va aumentando, di anno in anno, le forme di sopravvivenza per malati che fino a tempi recenti venivano semplicemente accompagnati alla morte naturale.

Che dire dell’altro paradigma, quello utilitarista? A differenza del principialismo di matrice deontologista, l’etica utilitarista considera che non ha senso partire da principi, «bensì nobili», ma astratti. In linea con il pragmatismo di Charles Pierce, questo paradigma suggerisce di fissare l’attenzione su casi singoli, avendo sempre di mira il criterio di rendere massima la sommatoria delle utilità individuali (è il cosiddetto principio del maggior benessere per il maggior numero). Tutto a posto, allora? Niente affatto. Infatti, per calcolare la sommatoria delle utilità individuali, è necessario che queste siano grandezze cardinalmente misurabili. Ma, come Vilfredo Pareto chiarì agli inizi del Novecento, le utilità personali, non essendo tra loro confrontabili, possono essere misurate unicamente in modo ordinale, con il che non si può fare la sommatoria e quindi l’approccio utilitarista diviene inservibile: bel paradosso davvero!

Un rimedio – si fa per dire – all’aporia ora evidenziata è stato avanzato negli USA negli anni ’80 del secolo scorso. Si tratta del criterio dei QALYs («Quality Adjusted Life Years»): il razionamento va attuato tenendo conto del numero di anni di vita residua, aggiustati per la qualità della stessa, che un certo trattamento è verosimilmente in grado di assicurare. Nel marzo 2020, la Società Italiana di Anestesia, Analgesia, Terapia Intensiva (SIAARTI), accogliendo di fatto il criterio del QALYs ha pubblicato le sue raccomandazioni di etica clinica, dove ai punti 3 e 4 si legge che «è necessario porre un limite di età all’ingresso in trattamento intensivo» (corsivo aggiunto). Altro esempio: in Olanda, tutti gli ultra-settantenni hanno ricevuto, nella primavera 2020, un modulo: firmandolo, essi si impegnavano, se colpiti da coronavirus, a rinunciare al ricovero ospedaliero, pure necessario, per non sottrarre posti letto a chi aveva maggiori probabilità di guarire. La cosa preoccupante è che tutti hanno firmato. Quanto a significare che a livello di cultura popolare, in quel paese, è ormai acquisito come qualcosa di ovvio o naturale l’accoglimento della concezione utilitarista della vita, di cui il criterio dei QALYs è specifica espressione (il rapporto dell’ONU sull’indice di felicità nei vari paesi presentato nell’Aprile 2021 a New York introduce, per la prima volta, il criterio del WELLBY, che considera congiuntamente i due criteri della qualità della vita e della lunghezza della stessa. È un primo passo avanti significativo nella direzione giusta).

Eppure, l’etica medica, da Ippocrate in poi, ha sempre fatto proprio il principio secondo cui una vita umana ‘vale’ tanto quanto un’altra, quale che sia la sua condizione di salute. È ovvio che uno è libero di abbracciare l’utilitarismo; deve però essere consapevole della grave incoerenza cui va incontro. Infatti, dato che la sanità è magna pars del sistema di welfare state nato in UK nel 1942 su basi contrattualistiche e non utilitaristiche, è chiaro che non si può seguire quest’ultimo canone in sanità e il canone contrattualista negli altri comparti del sistema. D’altro canto, non si può continuare a scaricare – in modo pilatesco – sulle spalle del singolo medico il peso di decisioni gravi (e spesso irreversibili) come quelle di cui ci stiamo occupando. Una società autenticamente civile non può non misurarsi con le aporie che essa stessa ha generato. Aporia è dove la strada viene meno e quindi, giunti come ora siamo a quel punto, bisogna decidere il faciendum se si vuole spiccare il balzo in avanti, evitando di edulcorare l’aporia e di correre dietro a facili conciliazioni.

Una pista di ricerca interessante, pur ancora lungi dall’essere pienamente articolata, è quella iniziata dallo «Human Flourishing Program» dell’Università di Harvard, un programma fondato nel 2016 e diretto da Tyler Vanderweele. L’idea base è quella di rifiutare la logica dei trade-off, perché sarebbe immorale contrapporre le conseguenze socio-economiche e pure la soddisfazione personale conseguenti alla pandemia al numero di vite umane perdute. L’approccio in questione sfugge a questa trappola morale considerando che tanti altri aspetti del benessere contribuiscono alla preservazione della vita. Ad esempio, la disoccupazione, l’isolamento sociale, la depressione aumentano il rischio di mortalità e di morbilità (alcune metanalisi stimano che la disoccupazione aumenta il rischio di mortalità di 1,63 volte; l’isolamento sociale di 1,29 volte, la depressione di 1,34 volte. Cfr. T. Vanderweele, Challenges Estimating Total Lives Loss in Covid-19 Decisions, «JAMA», 9 luglio 2020). In altro modo, la verità è che parecchie delle cose che ci interessano come persone influenzano anche la sopravvivenza e la longevità.

L’approccio delle «Vite Totali Salvate» (Total-Lives-Saved, TLS) tiene in debito conto oltre che il numero delle vite salvate o perdute in seguito alla pandemia, anche il numero delle vite salvate o perdute in conseguenza dei fattori sopra indicati. È certamente vero che il benessere personale e le sue componenti è un marcatore importante da tenere in debita considerazione, ma del pari lo è la fioritura umana (la eudaimonia nel senso di Aristotele) con i suoi costituenti quali la relazionalità, la ricerca del senso della vita, la formazione del carattere. Il TLS, trattando tutte le vite umane come aventi eguale valore, considera certamente il benessere, ma lo fa valutando i suoi effetti sulla vita stessa – cioè a dire, il benessere è visto in funzione della vita e non come fine a sé.

Certo, vi sono nodi metodologici che vanno ancora sciolti prima che il nuovo approccio possa risultare concretamente applicabile. Il più rilevante di questi è quello che riguarda la scelta della metrica sulla cui base attribuire un peso ai sei domini di valore considerati: felicità e soddisfazione di vita; salute fisica e mentale; senso dell’esistenza; carattere e virtù; relazioni sociali; sicurezza materiale e finanziaria. Il tempo dirà se l’approccio TLS saprà essere all’altezza delle sfide in atto. Il punto di avvio è però promettente e costituisce una applicazione particolare, ma di notevole significato, dell’etica delle virtù di ascendenza aristotelica e tomista, una matrice alternativa sia al principialismo sia all’utilitarismo.

5.Della brevettabilità dei vaccini anti-Covid: i termini del dibattito

L’efficacia di una campagna di vaccinazioni postula la sua universalità: vaccinare alcuni gruppi sociali o alcuni paesi soltanto a ben poco servirebbe. È ormai acquisito a livello di opinione pubblica che l’intervento a favore dei paesi poveri non è mera filantropia buonista, ma una strategia d’intervento a difesa dei paesi del Nord del mondo. Il problema che allora si pone non riguarda tanto il fine da raggiungere, quanto piuttosto la via (il methodos) da percorrere in vista di quel fine. La soluzione ottimale sarebbe quella di architettare un sistema di licenze, controllate e finanziate dai governi e di mobilitare le aziende più efficaci alle quali affidare la produzione di vaccini, mantenendo il loro nome e marchio. Chiaramente, si tratta di un progetto che richiede tanto tempo per essere attuato, ma esiste già un precedente importante e cioè la vaccinazione contro l’influenza stagionale. Da oltre cinquant’anni (dopo la grande epidemia influenzale del 1957-58) opera, entro il raggio d’azione dell’OMS, il «Global Influenza Surveillance and Response System» (GISRS), al quale aderiscono numerose istituzioni pubbliche e fondazioni di ricerca non-profit. Esperti e studiosi dei 110 paesi aderenti all’Influenza Network si riuniscono due volte l’anno per analizzare e discutere i dati più recenti sui nuovi ceppi influenzali e per decidere come modificare il vaccino dell’anno. Il GISRS costituisce un esempio notevole di quello che Amy Kapczyinski della Università di Yale ha chiamato «scienza aperta», il cui obiettivo è la protezione delle vite umane e non il conseguimento di profitti. Eppure funziona e pure bene (un curiosum. Nel 1796, E. Jenner inoculò al figlio di otto anni del suo giardiniere il vaiolo bovino prima di somministrargli il vaiolo umano: di qui il termine vaccinazione!)

Come ricordato, ci vorrà del tempo prima che un modello del genere possa trovare applicazione al caso della vaccinazione anti-COVID, ma ciò avverrà, perché quanto è sotto i nostri occhi è sia insostenibile sotto il profilo dell’efficienza sia immorale sotto il profilo dell’equità. Due recenti provvedimenti muovono un passo in tale direzione. Nella primavera scorsa, il Parlamento Europeo ha approvato la norma che introduce la liceità delle licenze obbligatorie per i vaccini, sospendendo temporaneamente la proprietà intellettuale e quindi i brevetti. Il recente summit del G20 a Roma, sulla scia della perentoria dichiarazione di Mario Draghi («Sospendere i brevetti e revocare i divieti generali di esportazione dei vaccini»), ha sottoscritto l’impegno a procedere alla vaccinazione dei cittadini dei paesi poveri, facendo memoria di quanto venne deciso nel 2005, quando si sospesero i brevetti sui farmaci anti-malarici e anti-AIDS. Come noto, è dagli accordi TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights) del 1994 che sono derivati vincoli crescenti alla attuazione di una «scienza aperta», il che ha creato lo spazio all’uso sempre più intenso di brevetti e quindi alla nascita di monopoli naturali. Quali sono allora gli argomenti addotti – troppo spesso in maniera speciosa e puramente ideologica – a favore del mantenimento dello status quo? Esaminiamoli partitamente.

Un primo argomento è di ordine pratico. Si sostiene che la mera sospensione dei brevetti non garantirebbe affatto una produzione adeguata di vaccini dal momento che occorre previamente dotare i paesi che ricevono la ‘formula’ del brevetto dei reattori da installare nei siti produttivi; addestrare il personale sanitario; assicurare la disponibilità dei circa duecento componenti necessari alla produzione del vaccino, oltre che tenere conto del fatto che la somministrazione del vaccino costa circa il doppio della sua produzione. In sostanza – si dice – è la scarsità di componenti quali enzimi, lipidi, nucleotidi a fissare il tetto alla produzione dei vaccini, soprattutto di quelli a tecnologia mRNA di BioNTech, Pfizer e Moderna. La prova che viene portata a sostegno di tale argomento è che, nonostante il fatto che gli accordi TRIPS (nella sezione I e Parte II) già prevedono la possibilità, in situazioni emergenziali, di imporre licenze obbligatorie, non si è fatto alcun ricorso a tale procedura. Ciò è bensì vero, ma un argomento del genere è poco meno di una petizione di principio. Invero, se si fosse iniziato ad affrontare la questione nel settembre 2020, quando già tutti gli elementi per prendere decisioni al riguardo erano ben noti, oggi non ci troveremmo nella situazione attuale. Non solo, ma se si fossero date ali al progetto COVAX autofinanziato, al quale aderiscono ottanta nazioni e tante Fondazioni filantropiche, oggi non saremmo nella condizione di cui sappiamo. E invece lo si è di fatto sabotato. Gavin Yamei, della Duke University, uno dei cofondatori del progetto, ha dichiarato recentemente: «È stata una bella idea, nata dalla solidarietà vera. Purtroppo, non si è realizzata perché i paesi ricchi si sono comportati peggio di qualsiasi peggior incubo» (sic!) (cfr. A. Usher, A beautiful idea: how COVAX has fallen short, «The Lancet», 19 giugno 2021. Si veda anche N. Jecker, C. Atuire, What’s yours is ours: waiving intellectual property protections for COVID-19 Vaccins, «Journal of Medical Ethics», 2, 2021).

Un secondo argomento che pure ha trovato largo seguito in tempi recenti è quello che addebita alle inadeguatezze del quadro giuridico la responsabilità primaria della carenza di dosi vaccinali. Il riferimento è alla natura dei contratti tra governi e imprese farmaceutiche per la fornitura dei vaccini – una circostanza questa che ha grandemente sorpreso, in senso negativo, l’opinione pubblica. Non si immaginava che il sistema imposto dal settore farmaceutico e supinamente accolto dal mondo della politica sarebbe stato in grado nel corso dell’ultimo trentennio di modificare endogenamente le regole di funzionamento del mercato. La prassi, infatti, era che una volta che un prodotto veniva approvato dall’Agenzia del farmaco, governo e aziende si accordavano sul prezzo e sulla modalità di vendita dello stesso. Ma il negoziato è tenuto segreto, così che i cittadini non riescono a conoscere le componenti del prezzo finale (quanta parte è dovuta al costo delle materie prime, quanta è legata alle spese di produzione, e quanta rappresenta la componente di profitto). E questo nonostante il fatto che una parte non irrilevante del finanziamento della ricerca proviene da fondi pubblici, cioè dal gettito fiscale pagato dai cittadini, ai quali è stato così negato il rispetto della condizione di trasparenza.

A ciò si è aggiunto un fattore di natura geopolitica: i governi fanno a gara tra loro per prenotare dosi di vaccino in ammontare superiore al fabbisogno, adottando il sistema degli «Advanced Market Commitments». Per conseguire l’obiettivo, i governi abdicano a clausole elementari che proteggono le comunità in caso di inadempienze e ritardi. Le conseguenze del fallimento di questa politica di incivile laissez-faire sono sotto gli occhi di tutti. Tecnicamente, questa è una forma di sequestro ingiustificato, che va a danno soprattutto dei paesi in via di sviluppo. Dopo aver perentoriamente affermato che «i monopoli uccidono», J. Stiglitz ha di recente dichiarato: «Se solo l’industria farmaceutica avesse messo tanto impegno nell’incrementare la produzione di vaccini quanto quello che sta mettendo nell’inventarsi argomentazioni speciose a sostegno del proprio oligopolio, saremmo un bel pezzo avanti». («Repubblica», 1 giugno 2021). I monopoli uccidono l’economia di mercato, come ogni intellettualmente onesto studioso di economia ben sa, almeno dai tempi di Adam Smith. Il 10 luglio 2021, il presidente Biden ha approvato un Executive Order (una sorta di Decreto Prsidenziale) dal titolo «Promoting Competition in the American Economy», il cui incipit recita: «Il capitalismo senza concorrenza non è capitalismo; è sfruttamento».

Di un terzo argomento desidero dire – quello certamente più delicato e afferente. Si tende ad affermare che senza i brevetti non vi sarebbe più l’incentivo a fare ricerca, né vi sarebbero capitali pubblici e privati disposti a rischiare. Un asserto del genere è, per un verso, indimostrabile e pertanto privo di validità scientifica, e per l’altro verso culturalmente pernicioso. Infatti, per dimostrare la correttezza dell’asserto occorrerebbe predisporre un’analisi controfattuale in grado di comparare l’esito di due scenari: l’uno senza brevetti, l’altro con brevetti e vedere cosa ne è del tasso di innobvatività. Ma ciò è manifestamente impossibile. È vero invece che l’evidenza empirica suggerisce che il regime di monopolio brevettuale non incoraggia affatto l’attività innovativa. Si pensi al caso celebre del vaccino antipolio, dovuto ad Albert Sabin e a Jonas Salk, finanziato con il sostegno della Fondazione Roosevelt e di centinaia di migliaia di donatori che diedero vita ad una delle prime campagne di crowdfunding della contemporaneità. I due scienziati non vollero assolutamente brevettare la loro invenzione e alla domanda insistente di un intervistatore televisivo, Salk rispose: «Si può forse brevettare la luce del sole?». Sulla medesima linea di pensiero, si era mosso parecchi anni prima il celebre economista di scuola liberale e premio Nobel dell’economia, F. Hayek, quando annotava che mentre la proprietà dei beni privati è conseguenza della scarsità, la proprietà intellettuale genera una scarsità artificiale e concludeva che il brevetto non era certo il modo migliore per sostenere la creatività dei ricercatori.

A scanso di equivoci, conviene precisare che non è qui in gioco l’eliminazione dell’istituto giuridico dei brevetti in quanto tali, ma solamente di quelli che, come i vaccini salvavita, hanno la natura di beni comuni, né di beni privati, né di beni pubblici. Non solo, ma la scoperta di un vaccino è frutto della collaborazione tra scienziati al lavoro nell’industria e scienziati attivi nei dipartimenti universitari e nei tanti Centri di Ricerca. Inoltre, non si può tacere del contributo a fondo perduto dei governi: nel caso di specie si tratta di 88 miliardi di dollari a livello globale, cifra tutt’altro che irrilevante. Ma allora, se le cose stanno in questi termini, perché mai gli extra-profitti – si badi, non il profitto normale – vengono versati solamente agli azionisti e non anche, secondo una qualche regola di proporzionalità, a tutti coloro che hanno contribuito ad ottenere il risultato? (Rinvio a F. Ledley et Al., Profitability of Large Pharmaceutical Companies Compared with Other Large Companies, «JAMA», 3, 2020, per una pregevole analisi che evidenzia come big-pharma realizza profitti significativamente più elevati di quelli di altre corporation di dimensioni analoghe).

Come si dovrebbe sapere, almeno tra gli economisti, sui beni comuni grava un vincolo di funzione collettiva, con il che il profilo della proprietà cede spazio alla comunanza del beneficio. Oggi, la solitaria figura dello scopritore declina e si afferma sempre di più l’opera comune. Solo una preoccupante involuzione ideologica della proprietà – che nulla ha a che vedere con la matrice di pensiero liberale – può giustificare il carattere privativo ed escludere gli altri dalla fruizione. Mi piace ricordare che quello da monopolio non è un profitto, ma una rendita parassitaria in senso tecnico. È il rent-seeking l’origine dei più gravi malfunzionamenti economici di questa nostra epoca. Ribadisco che il problema non è il profitto che remunera il capitale investito (così come il salario remunera il lavoro), ma il falso profitto, quello che deriva dalla non applicazione del principio del costo pieno (full cost) che prende in considerazione le esternalità sia sociali sia ecologiche generate dalla produzione. Già Adam Smith aveva insistito sul punto che la mano invisibile può operare nel senso di assicurare la Ricchezza delle Nazioni (1776) solamente se i consumatori dei beni prodotti possono esercitare una reale libertà di scelta a proposito della decisione di acquistare o meno quei prodotti. Si può forse pensare che le persone sotto la minaccia pandemica possano godere di una tale libertà di scelta? Addirittura la Business Roundtable – una sorta di Confindustria americana – nell’agosto 2019 ha modificato il proprio Statuto per invitare i CEO delle più grosse corporation a tener conto, nel loro modo di operare, di quanto sopra (cfr. H. Hudson, Making a Killing: the Imperative to Waive COVID-19 Vaccine Intellectual Property Rights, «Journal of Medical Ethics», 3, 2021).

Nature (giugno 2021) ha interrogato scienziati del settore sia privato sia pubblico, per individuare le lacune della collaborazione tra aziende e università nella ricerca in ambito sanitario. L’esito del sondaggio ha rivelato che due sono i punti di maggiore fragilità: la poca chiarezza sulla proprietà intellettuale di ciò che si sarebbe scoperto e l’accesso ai dati delle sperimentazioni. Le industrie farmacologiche ne escono non bene, sia perché si oppongono a condividere con le Università quote dei brevetti sia perché non intendono condividere i dati. Cosa accadrebbe se i ricercatori universitari si organizzassero per superare iniquità del genere? Si può onestamente credere che scienziati di alto profilo possano essere spinti ad un lavoro di ricerca impegnativo quanto pochi, da motivazioni unicamente estrinseche, come l’ottenimento di guadagni sempre più elevati? Una abbondante evidenza empirica suggerisce che la maggioranza (diversa da paese a paese) dei ricercatori è mossa in primis da motivazioni intrinseche, quali il perseguimento del bene comune della comunità e la propria fioritura umana. Si pensi, per fare un solo esempio, la caso di Katalin Karikò, biochimica ungherese, che a partire dagli anni Ottanta iniziò ad indagare le proprietà della tecnologia del mRNA – il vaccino RNA messaggero – perfezionata poi dai ricercatori di origine turca Ozlem Tureci e Ugur Sahin, successivamente fondatori della società tedesca di ricerca medica BioNTech, oggi al centro delle attenzioni internazionali. Sono ormai note le difficoltà e le incomprensioni che questi scienziati incontrarono durante i primi anni del loro lavoro di ricerca, quando era impossibile perfino congetturare l’esito finale. Eppure, se si leggono le interviste da loro rilasciate negli ultimi mesi, si scopre che sono state le motivazioni di natura intrinseca a consentire loro di superare ostacoli ristrettezze di ogni sorta. E allora perché si afferma che, senza la prospettiva del brevetto, gli scienziati non si impegnerebbero a sufficienza? Si è forse obbligati ad accogliere tutti il canone utilitarista dell’homo oeconomicus per realizzare grandi opere? È quanto meno strano che non si sia ancora pienamente compreso che mirare a tenere in vita un’economia ‘incivile’ di mercato è oggi la più seria minaccia alla prosperità assicurata dal nostro modello di civilizzazione.

6.Per concludere

Quella che ci ha colpito è una crisi di sistema, innescata da un virus aerobico di origine zoonotica, che investe tutte le sfere della convivenza umana. Non è dunque saggio rispondere ad una crisi di sistema con interventi e misure settoriali e parziali, pur in sé considerati validi e dotati di senso. Per attuare riforme che razionalizzino e aggiustino l’esistente bastano saperi tecnici; per una trasformazione liberatrice della realtà esistente serve una sapienza integra e ispirata. La pandemia da Sars2 (Covid-19) è una grande opportunità per lasciarsi alle spalle il sentiero di crescita finora battuto e per dare inizio ad un sentiero di sviluppo umano integrale. Non cogliere tale opportunità sarebbe un atto di grave mancanza di responsabilità. Essere responsabili, oggi, significa caricarsi sulle spalle il ‘peso delle cose’ (res pondus), e non semplicemente non commettere reati o irregolarità varie. Quest’ultima infatti è la responsabilità come imputabilità – si risponde delle conseguenze negative delle azioni che si compiono; la prima invece è la responsabilità come prendersi cura – si risponde per il bene che non si fa, pur potendolo fare.

Il fatto della possibilità è sempre la combinazione di due elementi: le opportunità e la speranza. È sbagliato pensare che perché qualcosa possa realizzarsi sia necessario intervenire solamente sul lato delle opportunità, vale a dire sul lato delle risorse e degli incentivi. Invero, i problemi che abbiamo di fronte non si risolvono invocando un mero aumento di risorse (si pensi alla competizione cosiddetta posizionale e ai guasti che essa sta provocando). Quel che è necessario perché la possibilità abbia a realizzarsi è insistere sull’elemento della speranza, la quale non è mai utopia. Essa si alimenta con la creatività dell’intelligenza e con la purezza della passione civica. È tale consapevolezza che apre alla speranza, la quale è né il fatalismo di chi si affida alla sorte, né l’atteggiamento misoneista di chi rinuncia a lottare. È la speranza che sprona all’azione e all’intraprendenza, perché colui che è capace di sperare è anche colui che è capace di agire per vincere la paralizzante apatia dell’esistente.

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