Laura Paoletti – FILOSOFIA E PANDEMIA: CHI INSEGNA E CHI IMPARA

(Editoriale di Paradoxa 3/2021)

Oltre che emergenza sanitaria la pandemia è stata anche una crisi di razionalità e ragionevolezza, di fronte alla quale la filosofia, che della ragione in genere dovrebbe essere il presidio, non ha dato il meglio di sé. Alcuni suoi rappresentanti, tra quelli, per altro, mediaticamente più esposti, hanno prodotto sintesi scintillanti, capaci di condensare problemi enormi in un paio di tesi suggestive e radicali, che hanno finito con il nobilitare le posizioni dei devoti del complotto e con l’irrobustire la convinzione di chi considera il filosofare una pratica inutile, nel migliore dei casi, dannosa, nel peggiore.

C’è effettivamente qualcosa di enigmatico nella possibilità che il sapere e il talento filosofici si traducano in posizioni politiche che, se proprio non coincidono con, somigliano però davvero molto a quelle di chi con il rigore del pensiero ha scarsa dimestichezza: dalla dittatura sanitaria, al Covid come menzogna politico-mediatica, al carattere discriminatorio e liberticida del green pass non c’è tema fantasioso che non abbia trovato una sua risonanza in pensose riflessioni biopolitiche. E non vale cavarsela sminuendo la caratura filosofica dei pensatori in questione: ci sono troppi autorevolissimi precedenti – il caso Heidegger docet, ma si potrebbe risalire ben più indietro – perché una soluzione così a buon mercato risulti davvero convincente. È più onesto prendere atto del fatto che nel passaggio dal discorso filosofico a quello quotidiano qualcosa di decisivo può andare perduto, e tenere aperta la domanda su come e perché questo possa succedere. Nel suo occuparsi, sul piano esplicito, di altro, questo fascicolo offre però implicitamente una risposta interessante, che si muove sul piano del metodo, prima che del merito.

L’intento di fondo dichiarato dal Curatore, infatti, è quello di provare a ricavare qualche ‘lezione’ dalla pandemia e ciò costringe ad un cambiamento di atteggiamento e punto di vista, tale per cui ci si rifiuta per principio di trattare l’emergenza sanitaria come la verifica empirica di teorie elaborate prima e del tutto indipendentemente da questa (come appunto accade da parte di chi, dopo aver teorizzato da tempo la non democraticità sostanziale delle sedicenti democrazie contemporanee, si limita ad apporre un ‘come volevasi dimostrare’ a qualsiasi provvedimento ‘dittatoriale’ di contenimento del virus). Da questo ribaltamento dell’insegnare nell’imparare scaturiscono alcune delle proposte metodologiche suggerite nelle pagine che seguono: quella di muovere dai dati, tentando innanzitutto una perimetrazione concreta delle «macerie» (Becchetti, p. 10) che la pandemia ha lasciato dietro di sé; quella di sostituire, ove necessario, i paradigmi teorici di riferimento, rifiutando, per esempio, una gestione delle scelte improntata alla dicotomia classica tra utilitarismo e principialismo (Zamagni, p. 39); quella di introdurre distinzioni concettuali nuove per render conto della specificità di una crisi che non è «dialettica» (come forse ci farebbe più comodo che fosse), ma «entropica» (ancora Zamagni, p. 29) e che di conseguenza richiede «resilienza» piuttosto che «resistenza»: resilienza personale, civile, imprenditoriale, e persino bancaria, secondo i molteplici versanti che vengono esplorati nelle pagine che seguono.

Come si vede, di materiale per un pensiero che voglia cimentarsi con le reali sfide lanciate dall’emergenza ce n’è, già così, in abbondanza. Ma la sfida teorica fa un salto di livello nel momento in cui, come accade in praticamente tutti i contributi qui raccolti, si tenta di leggere la crisi come invito ad alcune modifiche strutturali nei nostri assetti organizzativi e stili di vita: dalla rimodulazione del tempo e dello spazio imposta e/o resa possibile dallo smart working, alla transizione ecologica, alla presa d’atto del fallimento del modello socio-economico fondato sullo spontaneismo. Temi, evidentemente, molto impegnativi: e sarebbe interessante affiancare ai numerosi elementi positivi e propositivi offerti dagli autori il controcanto di un’analisi dei costi di attivazione per rendere sistemiche queste trasformazioni, nonché delle rinunce, talvolta dolorose, cui esse costringono. Ma questo è forse lo spunto per un altro fascicolo: quel che è certo è che la concretezza delle questioni affrontate in questo – una concretezza che aggiunge, e non toglie, consistenza teorica – mostra, anche al filosofo di professione, che il punto di vista di un individuo isolato, la cui principale preoccupazione è difendere con sottili distinguo l’integrità della propria libertà dalla minaccia del green pass è una clamorosa (auto)illusione ottica. Pensare la pandemia significa innanzitutto pensare il tipo di comunità civile, giuridica e politica nella quale riteniamo possibile e giusto affrontarla.

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