(editoriale di Paradoxa 3/2019)
Che la nozione di ‘democrazia illiberale’ abbia la stessa consistenza logica di ircocervi e cerchi quadrati (cioè nessuna) è un messaggio che arriva al lettore di queste pagine forte e chiaro. Su tutto il resto, però, le analisi, le argomentazioni e le tesi dei diversi autori compongono un quadro problematico assai più complesso e refrattario a sintesi di comodo. Ma di quale ‘resto’ si tratta, visto che il focus del fascicolo è appunto quello di sostenere che la democrazia o si sostanzia di istituzioni liberali o semplicemente non è? Il fatto è che sotto la superficie del problema esplicitamente tematizzato ne affiora continuamente un secondo, latente e significativamente più spinoso: quello dello stato di salute della democrazia, della democrazia come tale, nuda e cruda, senza la scappatoia di aggettivi di compromesso. E qui le cose si ingarbugliano subito, per due motivi.
Il primo è che le diagnosi proposte non sono affatto univoche e coprono un ventaglio di posizioni che va, semplificando, dalle luci del quadro tracciato da Pasquino alle ombre scure, quasi tenebre, dell’analisi di Tuccari: ad un estremo, la convinzione che le democrazie sono in perfetta forma, tanto da aver saputo realizzare il «più grande spazio di libertà […] e di diritti mai esistito al mondo [leggi: Unione Europea]» (p. 23) e da mostrarsi perfettamente «in grado di vincere la battaglia contro le non-democrazie illiberali» (p. 27); all’altro estremo, la constatazione di un grave affanno dei regimi democratici su scala globale, che sembra realizzare in modo straordinariamente puntuale la teorizzazione hungtintoniana dell’«onda inversa» (p. 39).
La seconda ragione del garbuglio si annida nella domanda stessa sulla (presunta?) crisi della democrazia, che coinvolge due piani certamente distinti, ma non sempre facilmente distinguibili: quello del fatto e quello dell’idea. Panebianco (Corriere della sera, 5 aprile 2017) osserva che «per Sartori la democrazia è una forma di governo che vive perennemente sotto pressione, potentemente condizionata dal grande divario sempre esistente e che tutti possono constatare fra “gli ideali democratici” e la democrazia realmente esistente, con le sue umane imperfezioni». Ma accade, per di più, che spesso non sia ovvio capire se chi pone la domanda intenda riferirsi al fatto che l’ideale non trova realizzazione nei regimi esistenti poiché viene tradito da quelli che ipocritamente vi si richiamano e/o perché soccombe di fronte a forze non-democratiche, o se invece intenda interrogarsi su eventuali crepe interne all’ideale stesso, che entra in crisi perché i problemi teorici connessi all’idea di democrazia sono tali e tanti da minarne la coerenza interna e, dunque, al limite, la pretesa di porsi come qualcosa che dovrebbe essere realizzato. È chiaro che i due piani sono variamente intrecciati e che, per esempio, un ideale che non avesse alcuna presa sul fatto, difficilmente potrebbe continuare a far valere la propria idealità; ma è altrettanto chiaro che è euristicamente indispensabile tenerli distinti, costi quel che costi in termini di fatica e di onestà intellettuali.
Quando, infatti, un ideale è così carico sotto il profilo valutativo come lo è quello democratico – del quale, giustamente, il Curatore sostiene che vada perseguito «giorno e notte» (p. 26) – , ogni eventuale perplessità sul piano dell’idea rischia di esser rigettata a priori come violazione quasi sacrilega di un valore assoluto, e viene la tentazione di mettere al riparo l’ideale relegando tutti i problemi sul solo piano fattuale e contingente: ma questo atteggiamento sarebbe a dir poco miope e certo non è quello praticato dagli autori di queste pagine. È evidente, per fare solo un esempio, che la tesi di Viroli, secondo cui è preferibile guardare alla ‘repubblica’, piuttosto che alla ‘democrazia’, come principio orientativo della prassi e della scienza politica, mette in questione la democrazia sul piano dell’idea e non soltanto su quello del fatto. E ‘mettere in questione’ non significa affatto negare o rifiutare: anzi, guardare senza censure all’inevitabile riverbero dei molti elementi di difficoltà fattuale sull’idea stessa di democrazia, contribuisce a tracciare più nitidamente i contorni di quest’ultima, a mostrare dove c’è bisogno di pensarla di più e meglio, dunque, in ultima analisi, a rafforzarla.
In questo senso, la difficile pratica di distinzione tra fatto e idea, a cui questi contributi sollecitano il lettore, offre subito, oltre che un elemento di indispensabile chiarificazione, un risultato su cui vale la pena richiamare l’attenzione: dalla pluralità di prospettive qui presentate, infatti, emerge con chiarezza che qualsiasi ‘crisi’ fattuale si rivela essere radicata in un elemento che fattuale non è, in una ‘fragilità’ della democrazia che è ideale, costitutiva della sua natura stessa di ideale e che sarebbe assurdo pretendere di eliminare, perché coincide con il tratto qualificante e più prezioso di quest’ultima: la dipendenza strutturale dall’elettore.
E questo espone l’ideale democratico ad una strutturale precarietà, perché il rapporto che lega l’elettore alla democrazia non ha in nessun modo la robusta solidità del fatto e il carattere incontrovertibile dei dati di fatto; peggio, non è nemmeno (soltanto e primariamente) un diritto, secondo quello che purtroppo è divenuta la comoda interpretazione dominante. Essere elettori è piuttosto un dovere, il quale ha uno statuto a sé e non può essere ulteriormente forzato e rafforzato da una circostanza fattuale che obblighi a dovere: come opportunamente sottolinea Viroli, «‘devi dovere’ o ‘devi sentire di dovere’ sono frasi senza senso» (p. 94). Così la democrazia è rimessa a questo ‘dovere’ senza appigli, che rende inaggirabile il passaggio per la responsabilità singolare (e non collettiva) con tutto quel che ne consegue in termini di fragilità. E forse varrebbe la pena chiedersi, e soprattutto chiedere alla scienza (e magari anche alla filosofia) politica, se e cosa si possa fare per tutelare fino in fondo il dovere di voto che nell’esercizio quotidiano delle nostre democrazie di fatto è diventato il diritto irresponsabile dell’‘uno vale uno’.