(estratto da Paradoxa 1/2016)
Anche con i fedeli dell’islam è possibile dialogare. […]
Ci vogliono pazienza, fiducia, onestà intellettuale,
rispetto della libertà dell’altro, capacità di ascolto.
E lasciare che il tempo faccia crescere
quanto di buono è stato seminato».
Cardinal Dionigi Tettamanzi, La città rinnovata dal dialogo, 2008
Una premessa, strategica. Ciò che i terroristi nel nome di Allah vorrebbero scatenare, a qualsiasi fazione si richiamino, sembra una guerra ma in realtà è una fitna, uno scontro fratricida per l’egemonia all’interno della umma, della comunità islamica (come da tempo ha colto il sociologo francese Gilles Kepel, ad esempio). Se il loro obiettivo simbolico sono i cristiani in Siria e gli yazidi in ciò che è diventato l’Iraq, o una testata satirica o un locale alla moda francesi, quello reale è l’islam che dialoga e si confronta bon gré mal gré con l’alterità, concependo la possibilità, forse per la prima volta nella sua storia, di una (faticosa, certo) convivenza multireligiosa, e giungendo ad apprezzare quel sacrosanto principio di laicità che tutela le libertà di ogni uomo e di ogni donna, a prescindere dal fatto che creda e da come creda. E se la buona notizia è che in questi mesi non pochi musulmani di tutto il mondo stanno condannando senza mezzi termini gesti orrendi come quelli di Parigi (gennaio e novembre 2015) o di Bruxelles (marzo 2016), quella cattiva è che sia l’Occidente sia gran parte del mondo islamico non colgano l’obiettivo primario di una simile strategia. Intendo dire che condannare è importante, è necessario, ma non basta. Strada per strada, chiesa per chiesa, moschea per moschea bisognerebbe spiegare che non siamo spettatori o protagonisti di uno nuovo scontro di civiltà, dell’armagedddon tra l’Occidente cristiano e l’islam globale. Non è così, e per questo non basta esecrare. Bisogna avere il coraggio di dire, come continua a fare papa Francesco, che uccidere nel nome di Dio è blasfemo, offende e distrugge il messaggio di pace dell’islam, cancella secoli di prossimità e persino di fraternità abramitica. Questo il messaggio che dovremmo sentire nelle moschee e nelle chiese e, in giorni di lutto e cordoglio, sarebbe un incoraggiante messaggio di speranza. Obiettivo del presente contributo è di fare il punto sulle odierne pratiche di dialogo fra cristiani e musulmani, a mezzo secolo dalla dichiarazione conciliare Nostra Aetate (28/10/1965) che per la prima volta pose esplicitamente a soggetto del magistero cattolico l’idea di un dialogo interreligioso con i musulmani (più che con l’islam, stando al testo): «La Chiesa guarda anche con stima i musulmani che adorano l’unico Dio, vivente e sussistente, misericordioso e onnipotente, creatore del cielo e della terra, che ha parlato agli uomini. […] Se, nel corso dei secoli, non pochi dissensi e inimicizie sono sorte tra cristiani e musulmani, il sacro Concilio esorta tutti a dimenticare il passato e a esercitare sinceramente la mutua comprensione, nonché a difendere e promuovere insieme per tutti gli uomini la giustizia sociale, i valori morali, la pace e la libertà» (n. 3).
L’islam, caso serio
Rischia di essere persino banale dire poi che siamo di fronte a un tema complesso, per molte ragioni, in linea di massima evidenti: a partire dalla sensazione generalizzata che l’islam oggi stia attraversando una delle fasi più delicate della sua storia ultramillenaria. In ogni caso, se su un versante è necessario tornare a ripetere che l’islam è un fenomeno plurale e vario e irriducibile a una lettura appiattita sui fenomeni terroristici della presente stagione, sull’altro dobbiamo ammettere che non è più sufficiente, oggi, limitarci a sostenere come un mantra che ‘islam significa pace, dal termine salaam’, che ‘l’islam non c’entra’, o che ‘l’islam è un’altra cosa’, e così via. Sì, occorre il più possibile entrare dentro le contraddizioni interne all’islam, decifrarle e denunciarle; ma anche dentro le contraddizioni del campo cristiano o occidentale (beninteso, entrambi gli aggettivi, tutt’altro che vergini, avrebbero bisogno di mille precisazioni, e vanno usati con le molle), relative alla nostra incapacità di pensare l’islam, di riflettere a fondo sull’urgenza di un maggiore investimento ecclesiale sulla conoscenza dell’islam e sul dialogo cristianoislamico, cosa che parrebbe evidente, rendendoci conto che l’attuale stagione di pluralismo religioso diffuso su scala planetaria non va intesa come momentanea o addirittura emergenziale, bensì come un dato strutturale e permanente della (cosiddetta) postmodernità. Per questo, da subito, è indispensabile ammettere che, affrontando la questione del dialogo interreligioso con l’islam, non si potrà accampare la pretesa di esaurire un argomento quanto mai urgente, ma almeno di evidenziare come essa si manifesti decisiva nell’attuale congiuntura storica, letta come una svolta cruciale: verso un rinnovato quanto illusorio affidamento all’identitarismo culturale e religioso, oppure aperta a nuovi scenari in gran parte tutti da delineare, ma in cui le relazioni interculturali e interreligiose si facciano grammatica comune del vivere sociale, di una cittadinanza pienamente glo-cale. D’altra parte, non possiamo negare che oggi, nella percezione collettiva, le religioni (e non solo l’islam!) siano desolatamente viste come detonatrici di violenza, terroristica, psicologica, verbale, e non solo, più che come collettrici di speranza, misericordia e apertura all’alterità. Qui siamo ora, e siamo chiamati a prendere sul serio sia il qui sia l’ora. È comunque importante, in tale direzione, dare spazio e raccontare il bello e il buono che già esistono, ma rimangono affogati nell’informazione allarmistica e tutta urlata cui siamo ormai rassegnati: anche perché l’esperienza del dialogo fornisce ai credenti (ma non solo a loro) un’opportunità per decostruire assieme quell’universale tendenza umana all’esclusivismo, allo sciovinismo, alla violenza e all’odio che possono infettare – e nei fatti stanno infettando – le identità di fede. Un primo passo, allora, indispensabile in vista di altre riflessioni e altri percorsi. Perché la sfida decisiva che attende oggi le chiese è di evitare una lettura delle differenze esistenti, pur profonde, come scontro tra bene e male; di rifuggire l’identificazione di un islam astratto, disincarnato; di rifiutare con chiarezza la demonizzazione dell’altro. Per riuscirvi, bisognerà guardare alle nostre differenze non come a idoli da adorare, ma come potenziale arricchimento reciproco verso una vita piena di amore: quell’amore che per cristiani e musulmani, dopo tutto, caratterizza l’essenza stessa di Dio. Il rischio di farsi prendere dalla sfiducia, dalla stanchezza, dalle delusioni, è molto alto! Forse, bonhoefferianamente, nell’odierna stagione siamo chiamati non tanto a edificare le grandi cattedrali, bensì a fare piccoli passi, seminando buone pratiche per le generazioni di domani.
Il ritorno della parola dialogo
Peraltro, un dato di fatto, per nulla secondario, è che la parola dialogo sta tornando a risuonare con una certa frequenza anche in ambito ecclesiale. Mai come negli ultimi anni, infatti, il dialogo, nelle sue diverse declinazioni (interculturale, ecumenico, interreligioso) è stato messo in discussione su più versanti. A dispetto degli sforzi in atto in tal senso, delle buone pratiche in corso, e sebbene si tratti innegabilmente della parola-chiave del progetto coraggioso posto in essere dalla chiesa cattolica con il Vaticano II e quello che per papa Giovanni XXIII avrebbe dovuto essere il suo senso profondo: il suo aggiornamento.
Scambiato di volta in volta per puro buonismo o per banale sincretismo, schernito come imbelle irenismo, o semplicemente scambiato erroneamente per relativismo assoluto, il dialogo da troppo tempo è visto sovente tutt’al più come un argomento comodo per fasciarsi il cuore a uso di anime belle e scarsamente combattive di fronte quell’irruzione dell’altro di cui ci ha parlato per primo Emmanuel Lévinas e che appare senza dubbio la cifra dominante di questi tempi affaticati e faticosi. Un altro che irrompe, per di più, nella stagione in cui (va ammesso, ormai sul piano mondiale) predomina il discredito della politica, delle ideologie e delle utopie, e che ricerca inevitabilmente nello spazio religioso nelle sue variopinte declinazioni la risposta ai suoi mille perché quotidiani. Da parte nostra, non abbiamo ancora metabolizzato questa irruzione. Non stiamo comprendendo che il dialogo non è, e non può essere, figlio di un tatticismo che ha già giudicato la posizione dell’interlocutore, e non è realmente interessato a essa. E non può essere equiparato, infine, a mera tolleranza, spesso idealizzata dalla cultura illuminista e post-illuminista, che sceglie di non affrontare la questione – decisiva – della verità. C’è chi l’ha descritta, non senza ragioni, come «una parola di moda e abusata» (A. Bongiovanni), che, in abbinamento all’attributo interreligioso, iniziò a comparire nel dibattito pubblico appena dopo la seconda guerra mondiale e in seguito al processo di decolonizzazione, sebbene il pensiero dialogico e relazionale di un Martin Buber fosse già all’epoca piuttosto diffuso nella cultura occidentale. Non bisognerebbe mai dimenticare, del resto, quando si accusa il dialogo di scarsi risultati concreti, che solo negli ultimi decenni del Novecento, il secolo breve di E. Hobsbawm,la teologia cattolica ha fatto sua la responsabilità del confronto con le religioni altre, superando (definitivamente, ci si augura) la formula tradizionale del ‘Cristo contro le religioni’, che dava per scontata la loro natura falsa e idolatrica. Fatta salva, ovviamente, la possibilità di una salvezza individuale, raggiunta peraltro attraverso vie piuttosto misteriose. Sta di fatto che l’accelerazione vistosa del processo di pluralizzazione dei riferimenti religiosi in Europa, e segnatamente in Italia, sta mettendo in gioco la necessità di rivedere, da parte delle diverse fedi religiose, le rispettive autocomprensioni (operazione tutt’altro che agevole, si badi). Come si potrebbe negare che, di fronte alla presenza delle religioni altre il cristiano, mentre si interroga sulla propria identità, percepisce che gli interrogativi che provengono dall’universo delle religioni interpellano la comprensione che il cristianesimo ha di se stesso? E se «l’ateismo ha potuto essere l’orizzonte in funzione del quale la teologia della seconda metà del secolo XX reinterpretava le grandi verità della fede cristiana, […] il pluralismo religioso tende a diventare l’orizzonte della teologia del XXI secolo» (C. Geffré). Si tratta di dinamiche sempre più vorticose, sempre più complesse, sempre più esigenti. Con l’incontro delle tradizioni religiose dell’umanità che ormai – come amava sottolineare Raimon Panikkar – risulta, a un tempo, inevitabile, importante, urgente, confusionale, rischioso, purificante (ci torneremo sopra).D’altra parte, in un contesto simile,aveva ragione Giuseppe Alberigo quando sosteneva che «il superamento del monolitismo del cristianesimo occidentale è il problema nodale della fede nel terzo millennio».
È legittimo allora, e anzi cruciale per uscire da questo stallo, chiedersi cosa sia accaduto. Dove sono finiti quell’operosità e quell’investimento coraggioso nei processi del dialogo, che avevano consentito di affinare una certa reciproca conoscenza tra fedeli di religioni diverse e reso realistica qualche azione comune contro il pregiudizio e i fondamentalismi religiosi da un lato, ma anche per una positiva convivenza in una società sempre più multiculturale e poi interculturale, almeno in progress, dall’altro? Non è facile rispondere, o forse sì: se a buon diritto si sente ripetere che il vento è cambiato, e così la direzione di marcia della storia (che però non è finita, come qualcuno aveva ipotizzato qualche tempo fa); che sta trionfando un sentimento di timore generalizzato nei confronti di qualsiasi alterità, mentre i frutti ottenuti sinora dai dialoghi effettuati localmente sono troppo esigui, per cui risulta spontaneo scoraggiarsi. E dedicarsi ad altro, semmai più redditizio… Siamo così transitati dalla fase dell’incontro interreligioso figlio legittimo della spinta conciliare, più o meno curioso e gioioso, alla denuncia generalizzata dei suoi rischi, quasi fossero perennemente in agguato; dalla prospettiva di un radunarsi intorno a valori e impegni comuni, dalla lotta per la libertà religiosa e contro l’islamofobia, l’antisemitismo e qualsiasi forma di razzismo in questi anni risorgente, alla rivendicazione orgogliosa e non raramente priva di pietas della propria identità. Talora, di un’identità puramente reattiva, come rivelano i sociologi delle religioni, quella di persone e gruppi che si scoprono improvvisamente detentori di uno speciale mandato divino come reazione alla minaccia (o alla pura presenza) portata da altri. Fino al martellamento costante dei media e di politici imprenditori della paura contro l’edificazione di nuove moschee e luoghi di culto, sempre e in ogni caso visti come potenziali cellule del terrore internazionale. Scordando – secondo le parole del premio Nobel per l’economia Amartya Sen – l’inaggirabile natura plurale delle nostre identità, e il fatto che la principale speranza di armonia in questo tormentato mondo risiede semmai nell’accettazione della pluralità delle nostre identità, che s’intrecciano l’una con l’altra e sono refrattarie a divisioni drastiche lungo linee di confine invalicabili cui non si può opporre resistenza.
Il dialogo della diakonia
Archiviato il mantra dei pericoli del relativismo, è papa Francesco, indubbiamente, ad avere fornito un contributo essenziale a tale svolta, con una serie di gesti e di discorsi che lasciano presagire l’inizio di una nuova stagione. Un passaggio importante e poco evidenziato dai media ha riguardato le sue parole in occasione dei cinquant’anni del Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamici (PISAI), una prestigiosa struttura accademica che nei decenni ha formato centinaia di sacerdoti, laici e missionari preparati, in primo luogo, al dialogo con l’islam. Esso «esige pazienza e umiltà – ha affermato il papa il 15 gennaio 2015 – che accompagnano uno studio approfondito, poiché l’approssimazione e l’improvvisazione possono essere controproducenti o, addirittura, causa di disagio e imbarazzo… Forse mai come ora si avverte tale bisogno, perché l’antidoto più efficace contro ogni forma di violenza è l’educazione alla scoperta e all’accettazione della differenza come ricchezza e fecondità». In quell’occasione Bergoglio utilizzò anche un’immagine simbolicamente molto eloquente: «Al principio del dialogo c’è l’incontro e ci si avvicina all’altro in punta di piedi senza alzare la polvere che annebbia la vista». In decenni di dialogo interreligioso, di polvere ne abbiamo vista tanta, di quella che ci impedisce di guardare in lontananza e quindi di non cogliere la complessità e la ricchezza del confronto tra persone che s’ispirano a una fede. E, anche quando abbiamo fatto il nostro onesto pezzo di strada, non abbiamo percepito altre opportunità e altri possibili percorsi.
Abbiamo visto il dialogo della spettacolarizzazione, quello – che pure ha avuto una notevole funzione simbolica – che creava grandi eventi interreligiosi per dimostrare che un pastore e un rabbino, un imam e un presbitero potevano incontrarsi e stringersi la mano. Gesti minimi, ma utili a invertire il corso di una storia secolare che invece aveva creato barriere e tensioni, scomuniche e guerre, censure e anatemi. Il potente limite di questo tipo di appuntamenti è stata però la loro ripetitività, il fatto che si celebrassero sempre uguali a se stessi e non riuscissero ad andare oltre la logica dell’incontro paludato e prevedibile nel suo andamento così come nel suo esito.
Un altro segmento del dialogo sperimentato in questi anni è stato quello del confronto sulle verità: tema decisivo e ostico, eppure essenziale. La strada del confronto esclusivamente su ciò che unisce evitando di misurarsi su ciò che divide non porta lontano e spinge ciascun partner del dialogo a nascondere bene negli armadi i propri fantasmi. Dire che il valore della pace è al centro di tutte le tradizioni di fede, ad esempio, è un’ovvietà ma anche una mistificazione: basta leggere i testi sacri – la Bibbia in primis – per verificare che il sangue vi scorre in abbondanza; si ripassi la storia europea e verranno in mente stragi e persecuzioni compiute senza problemi nel nome di Dio; si analizzi l’atlante geopolitico per verificare che più di un terzo dei conflitti in corso hanno una valenza anche religiosa. Pena la perdita della sua efficacia e del suo realismo, il dialogo sulle verità non può prescindere da questi dati che, attraversando tutte le religioni, le mettono tutte sul banco degli imputati. Certo, quello della pace – e della guerra – non è l’unico tema di un dialogo centrato sulle verità delle varie tradizioni. Eppure è questione centrale dalla quale derivano a cascata altre verità: chi è per noi l’altro nella fede? Come lo trattiamo? Quanta luce dell’immagine di Dio siamo disposti a riconoscere sul suo volto? E la nostra fede è un recinto di esclusione di chi dice Dio in altro modo o non lo dice affatto, o è un ponte che ci rimanda all’altro? Anche questi sono temi di verità sui quali le grandi tradizioni religiose hanno spesso evitato di misurarsi.
Per reagire all’astrazione del dialogo delle verità, abbiamo anche vissuto quello della vita, centrato sulle relazioni quotidiane. È stato un sicuro esercizio di ascolto e di condivisione, che ci ha aiutato a scoprire i tesori dell’altro nella fede a partire dalla semplicità del suo racconto e della sua testimonianza personale. Quello della vita è stato e resta un’opzione eccezionalmente feconda, che però, per crescere, necessita di un quadro più generale. Imparare da Ismail come prega e come vive il Ramadan, e per quel che ci riguarda provare a spiegargli chi per noi sono Agostino e Francesco d’Assisi, o Lutero e Calvino, è stata una bella avventura di mediazione interculturale, nella quale sono nate amicizie profonde che resistono nel tempo. Tuttavia, il limite di questo segmento del dialogo è quello proprio di ogni esperienza di base: importante e rassicurante sul piano delle relazioni tra le persone – tra alcune persone – essa fatica a incidere sul contesto generale dove, sempre più spesso, crescono invece pregiudizi e sentimenti islamofobici.
Molto in voga, soprattutto negli ultimi anni, il dialogo delle spiritualità. Intenso, profondo, rassicurante, persino gratificante. L’assunto è che siamo in una fase nuova, nella cosiddetta post-secolarizzazione, che ha riportato in auge i temi dell’Assoluto e della trascendenza, di Dio e della fede. Ovviamente, non si tratta di un ritorno al passato, semmai al futuro post-moderno. Un tempo nel quale – per molti ma non per tutti – il passato delle religiosità forti s’intreccia e si confonde con il futuro delle religiosità post-moderne, fluide e deboli nelle forme di appartenenza. In questo tempo sono in tanti a percorrere sentieri spirituali diversi, pronti a pellegrinare verso Santiago di Compostela e a seguire le lezioni di saggezza di un guru indiano, disponibili a riconoscere il miracolo di una guarigione e aperti al confronto con la mistica ebraica o inebriati dalle danze sufi. Tutto discutibile e facilmente tacciabile di sincretismo, certo, ma questa sembra la merce oggi più appetibile nel mercato delle religioni. In questo quadro il dialogo delle spiritualità ha certamente un suo appeal e un suo fondamento. Nel tempo della fusione olistica tra corpo, mente e anima, i temi della spiritualità irrompono con una forza inedita e inattesa anche sul piano del dialogo interreligioso, almeno per noi che siamo cresciuti nell’età della secolarizzazione e oggi, un po’ spaesati e confusi, ci ritroviamo in un territorio sconosciuto sul quale fatichiamo a camminare. Ma anche questo, da solo non può bastare.
Diakonia è il termine del Nuovo Testamento che indica il servizio che i credenti in Cristo praticavano al servizio dei più poveri e bisognosi. È questo, ritengo, un campo che il dialogo tra le grandi comunità di fede non ha ancora arato, eppure il terreno è fertile e, con un po’ di lavoro e di fiducia reciproca, si può immaginare di ricavarne frutti abbondanti. Qualche seme buttato qua e là ha già prodotto i suoi esiti: pensiamo, ad esempio, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati; alle iniziative interreligiose di preghiera nelle quali ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo; alla concretezza con cui tante persone di diverse fedi si danno da fare in scuole di alfabetizzazione o in centri di accoglienza per i migranti. Manca però ancora un quadro anche teologico nel quale collocare queste esperienze che, scollegate, perdono molto della loro potenziale efficacia. Ovvio, non si tratta di rinunciare agli altri segmenti del dialogo, ciascuno dei quali ha il suo senso e la sua funzione. Eppure, qoheleticamente, ogni cosa ha il suo tempo e questo è in primo luogo il tempo del servizio a migranti globali, uomini e donne che bussano alle nostre porte. Anche a quelle delle chiese, delle moschee, delle sinagoghe e di ogni altra casa di Dio. Così, l’idea di dialogo, nonostante il fastidio che produce in vari ambienti e la deriva retorica cui è stata sottoposta, in realtà non è scomparsa, ma piuttosto si è trovata relegata di fatto ai margini della pastorale ecclesiale. In concreto, per dir così, ha cambiato indirizzo: diventando spesso un dialogo laico sia nel metodo sia nei soggetti coinvolti, un dialogo di cittadini attivi nella promozione sociale più che di specialisti o di accademici, un dialogo extra muros più che intra muros. Perché la com/presenza nello stesso territorio di differenze nazionali, linguistiche, religiose, comporta necessariamente trasformazione notevoli non solo a livello delle forme religiose, ma anche sul piano istituzionale, strutturale, politico e legislativo. Così, vanno moltiplicandosi laboratori in progress i cui protagonisti sono sindaci e assessori, operatori sociali e culturali, insegnanti e semplici cittadini dotati di buona volontà: laboratori sempre più contagiosi e considerabili la normalità più che solo una pur felice eccezione. Da accostare, certo, ai dialoghi di vertice i cui protagonisti sono invece i leader religiosi: utili, ma – come credo si sia ormai colto – insufficienti a produrre quel clima dialogico, di curiosità e accoglienza vicendevole di cui ci sarebbe un’estrema necessità. Ecco: se il dialogo interreligioso, massime quello con l’islam, in questi giorni cattivi (Ef 5,16), è in crisi, lo è in primo luogo perché quanti vi si sono spesi nel mezzo secolo ormai che ci separa dai vagiti iniziali del Vaticano II – timorosi, speranzosi o dichiaratamente prevenuti – hanno dovuto prendere atto che esso non si lascia marginalizzare. Se assunto realmente come caso serio, mette in discussione radicalmente opinioni e stili di chiesa consolidati, punti di vista ritenuti definitivi, atteggiamenti mentali depositari. In una parola, ebraicamente, spinge inevitabilmente a una teshuvà; oppure, alla maniera del Nuovo Testamento, alla metànoia. Non accetta mezze misure, doppiopesismi, dilazioni. Come il giovane ricco in fuga di fronte a Gesù, rabbuiato perché aveva molti beni (Mc 10,17-22), di fronte al dialogo si può solo prendere o lasciare. E se il quieto vivere spingerebbe a lasciare, l’adesione al vangelo costringe a prendere.
Un papa venuto dalla fine del mondo
per camminare insieme agli altri
È indubbio. Con l’elezione di Francesco del 13 marzo 2013, il popolo del dialogo – reduce, come si accennava, da stagioni non certo entusiasmanti, segnate più da delusioni che da attese compiute – ha risollevato il capo ed è tornato a sperare. Con ragioni che sono emerse da subito, da quel saluto dal balcone di San Pietro: a partire dalla scelta del nome, che rimandava evidentemente al Povero d’Assisi, come ha spiegato un paio di giorni più tardi lui stesso, per il tema della povertà, della pace e della custodia del creato. Impossibile dimenticare, però, che San Francesco è anche colui che ebbe il coraggio di confrontarsi con l’islam con un atteggiamento pacifico e aperto (fu a Damietta, in Egitto, nel 1219, in piena epoca crociata); e che al numero 16 della sua Regola non bollata, quella più vicina al suo spirito originario, affidava l’efficacia del suo messaggio evangelico sine glossa prima di tutto alle opere e alla testimonianza del buon esempio, e solo in un secondo tempo a un’esortazione verbale. Oltre al nome, è apparsa chiara la sua scelta di autodefinirsi preferibilmente vescovo di Roma, e non papa. Non si tratta, sia chiaro, di un problema di modestia, o, peggio, di un bizantinismo: si è papi in quanto vescovi di Roma, e non viceversa; Roma, che presiede nella carità tutte le chiese (citazione tratta da Ignazio d’Antiochia). Un’opzione carica di significati anche nell’ambito della grammatica dell’ecumenismo, fra l’altro, dato che le modalità con cui viene vissuto e percepito il primato petrino è ancora uno degli ostacoli più significativi in chiave di unità delle chiese (come aveva sottolineato lo stesso Giovanni Paolo II nell’enciclica Ut unum sint, del 1995, dove, al n. 96, era giunto a chiedere ai responsabili delle chiese e ai loro teologi di avviare sul tema «un dialogo fraterno, paziente, nel quale potremmo ascoltarci al di là di sterili polemiche»). Ecco allora che non appare casuale che, una settimana dopo l’elezione, in occasione dell’incontro con i leader delle chiese cristiane e delle grandi religioni Francesco, nella Sala Clementina – dove uno strappo al protocollo evidenziava l’assenza del trono, sostituito da un semplice seggio – abbia rifatto il gesto che fece Paolo VI a Gerusalemme con il patriarca di Costantinopoli Athenagoras (5/1/1964): ha abbracciato il patriarca Bartolomeo I e l’ha chiamato Andrea in quanto erede dell’Apostolo, così come Athenagoras chiamò Pietro l’allora papa Montini. «Ci rallegriamo di tutto cuore con la vostra amata santità per la vostra elezione ispirata da Dio e l’assunzione dei vostri doveri quale primo vescovo della chiesa cattolica», ha detto a sua volta Bartolomeo I al pontefice, aggiungendo che «compiti enormi per l’unità l’attendono». Nel frangente il vescovo di Roma si è riproposto non solo di«continuare nel cammino verso l’unità della chiesa», ma anche di proseguire il dialogo «che ha portato frutti» con l’ebraismo, senza tralasciare quello con le altre religioni, in primis con i «musulmani che adorano Dio unico, vivente e misericordioso». Due giorni dopo, il 22 marzo, parlando al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede solo in italiano, Francesco ha indicato poi le linee-guida del pontificato, affermando fra l’altro che «non si possono costruire ponti tra gli uomini dimenticando Dio» e definendosi «costruttore di ponti». Fino a dirsi desideroso che «il dialogo tra noi aiuti a costruire ponti fra tutti gli uomini, così che ognuno possa trovare nell’altro non un nemico, non un concorrente, ma un fratello da accogliere e abbracciare». Del resto, ha confessato con un cenno autobiografico, le sue stesse origini lo «spingono a lavorare per edificare ponti». Infatti, «la mia famiglia è di origini italiane; e così in me è sempre vivo questo dialogo tra luoghi e culture fra loro distanti, tra un capo del mondo e l’altro, oggi sempre più vicini, interdipendenti, bisognosi di incontrarsi e di creare spazi reali di autentica fraternità». In quest’opera è fondamentale anche il ruolo della religione: «Non si possono vivere legami veri con Dio, ignorando gli altri. Per questo è importante intensificare il dialogo fra le varie religioni, penso anzitutto a quello con l’islam, e ho molto apprezzato la presenza, durante la messa d’inizio del mio ministero, di tante autorità civili e religiose del mondo islamico». Occorre dire, del resto, che la consuetudine dei rapporti fraterni con esponenti di varie religioni era già un atteggiamento abituale per l’arcivescovo di Buenos Aires Bergoglio. Le buone relazioni con gli ebrei sono testimoniate, fra l’altro, dal volume scritto a quattro mani con il rabbino Abraham Skorka, Il cielo e la terra, fra i primi usciti in italiano dopo la sua elezione. In occasione del Te Deum, la liturgia di ringraziamento di fine anno, egli era solito chiedere ai leader religiosi locali di partecipare alla cerimonia e, negli ultimi anni, li invitò anche a recitare una preghiera. Non mancano testimonianze di un suo rapporto fraterno con l’imam della capitale argentina. Nel libro sopra citato, sostiene fra l’altro che «Dio si fa sentire nel cuore di ogni persona. E rispetta anche la cultura dei popoli. Ogni popolo coglie una visione di Dio, la traduce in accordo con la propria cultura e la elabora, perfezionandola, dandole una specifica forma». Fino ad accreditare la sensazione che, se per Benedetto XVI dialogo interreligioso e dialogo interculturale si muovono su due piani diversi e in particolare con l’islam sarebbe praticabile solo il secondo, Francesco ritenga che il confronto religioso e quello culturale siano strettamente connessi, e che l’uno non possa procedere senza l’altro. Del resto, al di là dei suoi primi passi nelle sue relazioni con le altre chiese e le altre religioni, un motivo di speranza per il popolo del dialogo va rintracciato, direi, nella scelta del suo stile di pontificato. Cosa che, beninteso, va ben oltre i pur rilevanti cambiamenti nella quotidianità che i media hanno puntualmente sottolineato. Il riferimento, infatti, è alla visione del cristianesimo suggerita dal teologo Cristoph Theobald, quando rilegge il cristianesimo come stile. Perché ciò che Gesù fa e dice nei suoi incontri è un tutt’uno con il suo essere, in lui ci sono un’assoluta unità e trasparenza di pensiero, parola e azione che sono manifestazione del Padre: dal suo stile emerge la provocazione di un cristianesimo che apprende, mentre le patologie e le infedeltà al vangelo che pervadono ogni epoca della storia ecclesiale – compresa la nostra, alla fine del regime di cristianità – possono essere lette come rottura della corrispondenza tra forma e contenuto. Quando prevale la forma, si ha un cristianesimo ridotto a estetismo liturgico, istituzione gerarchica, struttura dove, però, è assente la sostanza di quell’amore che porta Gesù fino alla croce. Se invece prevale il contenuto, si ha un cristianesimo ridotto a impianto dottrinale e dogmatico, verità fatta di formule cui credere, priva di un legame vitale con l’esistenza delle persone. Una chiesa fedele allo stile di Gesù, perciò, non si presenta come istituzione detentrice di un sistema di dogmi da insegnare al mondo, ma spazio in cui le persone trovano la libertà di far emergere la presenza di Dio che già abita la propria esistenza, e spazio istituzionalmente dialogico. Ogni persona – quali che siano la sua religione, il suo pensiero e la sua cultura – è portatrice di un’immagine di Dio che aspetta di rivelarsi come per gli apostoli nella Pentecoste, cioè di fare proprio lo stile di Gesù: quindi i cristiani dovrebbero essere in ricerca della manifestazione di Dio propria di ogni religione, cultura e pensiero, invece di assumere atteggiamenti di svalutazione e condanna. Credo sia lecito affermare che papa Bergoglio abbia ben chiara questa traiettoria, e abbia scelto di vivere in prima persona questo stile. È questo l’atteggiamento che può far sperare che, esauritosi il tempo di quello che il cardinal Kasper aveva definito il dialogo delle coccole (Sibiu, Terza Assemblea Ecumenica Europea 2007), possa cominciare finalmente la stagione del dialogo della franchezza e della collaborazione, anche con i musulmani: quello di cui le chiese, le religioni stesse e il mondo intero hanno un estremo bisogno. Siamo chiamati a camminare insieme, papa Francesco lo ripete in continuazione, anche perché solo camminando si apre il cammino (A. Machado).