Ioannis Papageorgiou – CRISI GRECA, CRISI EUROPEA E CRISI DI LEGITTIMITA’ IN EUROPA

(estratto da Paradoxa 3/2015)

Introduzione

Alle prime ore del mattino del 13 luglio 2015, dopo diciassette ore di negoziati al vertice dei capi di stato dell’Eurozona – e molte ore di più a livello dell’Eurogruppo e di altri gruppi tecnici – la Grecia ha concordato con gli altri partner europei un terzo pacchetto di salvataggio per l’economia in crisi del Paese. Questo risultato ha messo fine al più recente, e speriamo ultimo, capitolo della ‘tragedia’ greca, iniziata nel 2010 con l’incapacità del Paese di finanziare il suo debito pubblico e la conseguente richiesta di assistenza presentata all’Eurozona. La crisi era nata come una crisi del debito pubblico, che un Paese dotato di una politica monetaria indipendente avrebbe potuto risolvere con una svalutazione della propria moneta. Tuttavia, l’esclusione di questa possibilità per i Paesi che fanno parte dell’unione economica e monetaria europea ha portato lo spettro del default economico del Paese all’interno dell’Eurozona o, peggio ancora, la Grexit, cioè, la fuoriuscita dalla zona euro o addirittura dall’Unione Europea – visto che i Trattati prevedono una procedura per l’uscita dall’Unione europea, ma non dall’Unione monetaria, che si suppone irreversibile.
La crisi greca è stata soprattutto una crisi generata da cause interne. Messe da parte queste, però, la stessa crisi ha messo in luce i difetti più generali di costruzione dell’Eurozona e dell’unione monetaria. Difetti che riguardano tanto la risposta europea alla situazione greca, quanto, in particolare, l’assenza di una legittimità democratica europea come fondamento della trasformazione del continente e del processo d’integrazione europea. Il presente articolo tenta di inserire la crisi finanziaria greca nell’ambito complessivo degli sforzi volti a creare una legittimità europea e di suggerire ipotesi di lavoro per la creazione di un ‘demos’ europeo o di una comunità politica integrata.
La crisi greca: origini e cause
Non è facile spiegare le radici della crisi greca in un breve articolo. La crisi del debito greco ha origini lontane. Lo stato greco moderno ha sofferto, durante i quasi due secoli della sua indipendenza dal 1830 in poi, più di un fallimento economico: è forse l’unico esempio di Paese che ha dichiarato il suo primo default già prima di aver raggiunto l’indipendenza – durante la guerra di liberazione contro gli ottomani. I problemi finanziari sono stati una caratteristica costante nella storia della Grecia che, nel 1893 ha dovuto chiedere l’intervento di una commissione internazionale composta di rappresentanti dei creditori per controllare le finanze interne. Le cause economiche di questo permanente malessere greco si intrecciano con una serie di problemi di cultura politica e sociale. Tra le cause finanziarie si possono annoverare: il mantenimento di politiche economiche incentrate su bassi investimenti, scarso sviluppo economico e deficit pubblico dopo gli anni sessanta, inflazione elevata e sostegno permanente della classe dirigente a politiche fondate su enormi spese pubbliche improduttive finanziate dal debito. La situazione politica era altrettanto difficile e instabile: dopo la sua indipendenza, il Paese ha attraversato tre periodi repubblicani, quattro periodi di monarchia con due diverse dinastie, sei guerre regionali o internazionali, due guerre civili, e tutta una serie di cambi di governo. Per di più, la posizione della Grecia, al confine tra Paesi stabili e instabili, e gli sviluppi politici degli anni Sessanta/Settanta – soprattutto la dittatura dei colonnelli dal 1967 al 1974 – hanno tenuto il Paese fuori dal processo di modernizzazione politica e sociale che ha avuto luogo in Europa ed in gran parte del resto del mondo.
Dopo la caduta della dittatura, però, il Paese è entrato in un periodo di stabilità senza precedenti. Nel giro di pochi anni dopo il 1974, la Grecia ha saputo creare e, apparentemente, consolidare un sistema democratico e pluralistico e ha avviato un processo di avvicinamento all’Europa. L’adesione, il 1° gennaio 1981, della Grecia alla Comunità Economica Europea, ben prima di Spagna e Portogallo, è stata considerata come un premio per il Paese e per la sua storia recente, considerata un successo senza precedenti.
Questa ‘europeizzazione’ del Paese è stata ancor più consolidata con l’arrivo al potere, sempre nel 1981, del partito socialista Pasok, all’epoca abbastanza radicale e attestato su posizioni terzomondiste piuttosto che socialdemocratiche. Il Pasok al potere ha normalizzato l’alternanza politica e si è allineato alle posizioni della sinistra europea contemporanea, pur mantenendo un lessico spiccatamente radical-socialista. Allo stesso tempo, la società sembrava vibrante e ottimista. Tutto ciò culminò nell’ingresso della Grecia nell’Unione monetaria nel 2001. Dopo di che, i greci hanno vissuto un periodo di prosperità e crescita senza precedenti. L’organizzazione dei Giochi Olimpici di Atene del 2004 sembrava l’acme dell’evoluzione della Grecia da Paese periferico a Stato pienamente europeo, prospero, sicuro di sé stesso, economicamente e politicamente solido sia a livello regionale che europeo.
Purtroppo, la situazione non era per niente tranquilla come sembrava. Il Pasok perfezionò un sistema di clientelismo già preesistente nella società, aumentando la spesa pubblica finanziata con il debito e sfruttando a tal fine anche i finanziamenti europei che, invece di andare a rafforzare le strutture produttive del Paese, venivano utilizzati per arricchire singoli individui e gruppi privilegiati. Lo stato delle finanze pubbliche non migliorò con l’adesione alla moneta unica. I governi succedutisi al potere, sia di Nuova Democrazia (conservatori) che del Pasok, hanno continuato ad ampliare lo Stato sociale senza un corrispettivo aumento dell’imposizione fiscale o della produttività. Il settore statale e parastatale ha accresciuto le proprie dimensioni senza un corrispettivo aumento delle prestazioni mentre il basso costo del denaro permetteva a imprese ed individui di ottenere prestiti anche in assenza di prospettive finanziarie solide. Anche l’alto costo sostenuto per la realizzazione delle Olimpiadi del 2004 ha contribuito a far impennare il debito oltre il 150% del PILPresi in un circolo vizioso, i governi successivi furono costretti ad emettere grandi quantità di titoli di Stato e a rinnovare quelli già esistenti a interessi crescenti precipitando il Paese dentro una voragine debitoria sempre più profonda.
In questo modo, quando la crisi finanziaria ed economica globale colpì l’Europa nel 2008, la Grecia divenne e rimase la sua principale e più osteggiata vittima. Dal 2010, la Grecia non è più stata in grado di rimborsare i propri debiti. Di fronte allo spettro del default, il Paese ha dovuto chiedere l’aiuto dei partner dell’Eurozona ed è stato salvato grazie ad una serie di massicci prestiti europei (con il contributo del Fondo Monetario Internazionale). I programmi di salvataggio, finora tre, hanno avuto come prezzo l’accettazione da parte della Grecia di misure di austerità dolorose, portando a un enorme aumento della disoccupazione, che rimane sopra al 25 per cento (e circa al 55 per cento tra i giovani), e l’obbligo di avviare dure riforme delle sue strutture amministrative e produttive.
L’incapacità del governo precedente di mettere un freno a cinque anni di recessione e di austerità e di proporre un programma economico sostenibile per la società greca, ha permesso l’arrivo al potere, nel gennaio 2015, della sinistra radicale di Syriza, eletta con un programma di rigetto dell’austerità. Incastrato tra le opposte promesse di porre fine all’austerità e di mantenere il paese nell’Eurozona, ed incapace di arrivare ad un accordo con gli altri Stati membri dell’Eurozona, il nuovo governo ha indetto un referendum, il 5 luglio 2015, per uscire dell’impasse in cui si era ritrovato per poi capitolare definitivamente ed accettare un terzo programma di salvataggio, l’ultimo atto di una tragedia politica ed economica.
A parte le cause economiche, però, la crisi ha avuto delle ragioni molto più politiche e, per molti aspetti, radicate nella storia della Grecia. Il Paese è stato vittima di un populismo rampante che gradualmente ha conquistato le istituzioni, lo Stato e la società, sostituendosi ai principi della democrazia liberale. A questo si aggiungono una cultura del clientelismo e la corruzione, caratteristiche perduranti della società, l’inefficacia cronica del sistema politico, accompagnati, durante l’ultimo periodo, da un consumismo esagerato e da un atteggiamento individualista. Altri motivi, quali il consolidamento di un tessuto economico basato sugli aiuti europei, l’assenza di una solida tradizione parlamentare e sociale di ‘accountability’, sono a volte citati come responsabili del fallimento del paese. Taluni si spingono ancora più lontano, attribuendo la crisi greca ad un fallimento che va al di là dell’economia e delle finanze pubbliche e si profila come un fallimento della società e dei suoi valori: per costoro, la Grecia è un paese balcanico e orientale estraneo ai valori e ai principi liberal-democratici dell’Occidente.
Misure di austerità e democrazia politica
Come già accennato, la crisi in Grecia – ma anche in altri Paesi europei che vivono o hanno vissuto in egual modo la crisi – ha portato, soprattutto all’inizio, all’approvazione di un numero importante di misure di risanamento economico, con o senza il programma di salvataggio europeo, che hanno avuto un costo sociale e politico rilevante. A livello politico, il sistema bipartitico prevalente (il Paese è stato governato dopo il 1974 da governi di maggioranza sia di Nuova Democrazia sia del Pasok) è crollato. Il Pasok, considerato come responsabile del ricorso alla ‘troika’ dei creditori (Commissione, BCE e FMI) è quasi sparito, passando dal 46% del 2009 al 4,5% delle elezioni del gennaio 2015; Nuova Democrazia ha sofferto una scissione e rimane sotto il 30%. La reazione all’austerità ha provocato una divisione all’interno della società tra i fautori e gli oppositori delle politiche di risanamento economico, l’aumento del rigetto della politica e l’emersione di nuovi partiti di contestazione di estrema destra (come il partito neo-nazista Alba Dorata) e di estrema sinistra (come Syriza, un piccolo partito di sinistra radicale che ha saputo raccogliere il dissenso degli elettori e ha conquistato il potere alle ultime elezioni generali).
Una situazione simile si è verificata in altri Paesi della periferia dell’Eurozona. Dappertutto, con la possibile eccezione del Portogallo, la crisi del debito pubblico ha trasformato il sistema politico: i tradizionali partiti di governo sono stati sfidati, si sono indeboliti oppure sono spariti, nuovi e minacciosi concorrenti sono emersi, sia da sinistra che dalla destra estremista, così come partiti anti-sistemici (il Movimento Cinque Stelle in Italia ne è un esempio egregio). In tutti i casi, la resistenza e l’opposizione popolare erano collegate all’imposizione forzata delle misure di austerity.
I greci, che più di altri non hanno potuto e/o voluto assumersi la responsabilità, tutta o in parte, della crisi, hanno vissuto le politiche di austerità (ma anche talune riforme strutturali) come un affronto alla sovranità nazionale ed ai principi democratici da parte dei partner (più spesso chiamati ‘creditori’) europei. Per molti cittadini greci, l’Europa (in primo luogo la Germania) ha imposto misure antidemocratiche, prese contro la volontà dei cittadini e, in alcuni casi, contro la volontà dei loro governi legittimamente eletti.
La vittoria di Syriza – e ancor più il voto negativo al referendum del 5 luglio – sono stati così attribuiti alla ‘resistenza’ del popolo ai potenti, in Europa e all’interno del paese. Poco a poco, durante i sette mesi di negoziati infruttuosi tra il governo greco e il resto dell’Eurozona, si è formata una contrapposizione tra la democrazia greca e la volontà sovrana del popolo contro l’anti-democrazia rappresentata dagli altri governi europei e, soprattutto, dalle istituzioni europee ed internazionali non elette. Si ricorda, a questo proposito, che durante l’ultimo vertice dell’Eurozona, il 12 luglio 2015, quando, dopo negoziati durissimi durati più di sedici ore si è giunto al terzo programma di salvataggio della Grecia, l’ashtag #thisisacoup (questo è un colpo[di stato]) è diventato popolarissimo tra gli utenti di Twitter – dimostrando l’opposizione di almeno una parte della società ad un comportamento percepito come una forzatura alla democrazia. Infatti, durante la breve campagna prima del referendum di luglio (il cui quesito dovrebbe essere insegnato come modello di studio di manipolazione politica, ma questo è un altro discorso) l’accusa principale contro l’Europa era la mancanza di rispetto per le decisioni degli elettori greci. Era molto difficile, e, dato l’esito del referendum, si è rivelato ovviamente vano, spiegare agli elettori che le decisioni ‘sovrane’ dell’elettorato greco per quanto concerne l’utilizzo dei fondi europei per il salvataggio dell’economia greca e, più in generale, le politiche macroeconomiche legate alla moneta comune, non rientravano e non potevano rientrare nel dominio nazionale né di una comunità politica ristretta allo stato nazionale. Quest’atteggiamento, che non si limita ai greci, è indicativo di uno dei problemi fondamentali per la costruzione europea: l’assenza di legittimità delle decisioni politiche europee.
La legittimità nell’integrazione europea
Nelle teorie dello Stato, il concetto di legittimità si esprime come il legame tra i governanti e chi è governato. Non si tratta solo della legalità, che significa che una decisione è presa secondo delle regole già fissate, ma comprende anche il riconoscimento del principio secondo cui le regole sono stabilite da un determinato organo. Per i teorici dello stato come Janet Mather, la legittimità, in quanto legame tra governanti e governati, è un prerequisito per il successo politico del governo. La studiosa inglese suddivide il concetto di legittimità in: una convinzione condivisa, un dispositivo creato artificialmente, un sistema accettato e qualcosa di cui una determinata persona o governo viene investito, che può essere costruita sulla fiducia o la fedeltà (tra persone o tra cittadini e istituzioni). La legittimità contiene dunque un elemento normativo: le attese del sistema di governo e delle leggi devono essere soddisfatte.
In generale, la legittimità è data per scontata in uno stato-nazione, particolarmente quando questi è democratico – soprattutto perché questo rimane il quadro naturale o normale del sistema internazionale – e può essere ‘misurato’ esaminando in modo concreto il grado di accettazione delle decisioni prese dai governanti da parte dei governati. Non succede lo stesso con un’organizzazione internazionale, dove manca l’effetto automatico che spesso si vede a livello nazionale. In questo modo, i governi nazionali hanno un grado di legittimità più alto di quello delle organizzazioni sovranazionali che sono frutto di un processo di cooperazione tra governi che devono dimostrare la loro legittimità in un modo diverso rispetto a quello che si applica agli stati.
Dalla nascita delle Comunità europee in poi, l’adesione degli elettorati era data per scontata in un contesto più ampio della cosiddetta ‘benigna negligenza’ (benign neglect): le decisioni a livello europeo venivano prese da funzionari statali e burocrati europei, dietro porte chiuse (o semi-chiuse). I cittadini non erano coinvolti, e nemmeno informati; anche i parlamenti nazionali ricevevano scarsa informazione sulle questioni decise, spesso indicate e giustificate come tecniche. Il graduale approfondimento dell’integrazione europea e l’intromissione dell’Europa nella vita di ogni cittadino europeo, già dagli anni Ottanta ma soprattutto dopo il trattato di Maastricht, ha fatto attribuire competenze essenziali finora nazionali (sulla moneta, la sicurezza interna, la cittadinanza, la diplomazia) alle istituzioni di livello europeo (o anche a loro). Si trattava però di trasferimenti che indebolivano il controllo democratico e rafforzavano le accuse di un crescente deficit democratico in Europa.
In effetti, il progressivo trasferimento di competenze dagli Stati membri all’Unione Europea non è stato il frutto di un dibattito costituzionale, ma piuttosto di adeguamenti tecnici nei campi d’azione dell’Unione e nella ripartizione delle competenze. Misure anche molto rilevanti che potrebbero essere viste, e, in effetti lo sono state, come passi verso la creazione di un sistema federale, prima di tutte l’introduzione di un’unione monetaria con una moneta unica, sono invece state trattate in questo modo pratico e senza un grande dibattito dal punto di vista dei diritti fondamentali e di un vero dibattito costituzionale.
Al contrario, si profilava sempre più chiaro il timore, vero o percepito, dai governi e più in generale dalle élite europee ad avviare un dibattito costituzionale riguardo l’Europa. Infatti, soprattutto dopo i risultati negativi di alcuni referendum in occasione delle varie riforme dei trattati in passato (per Maastricht in Danimarca, per la Costituzione in Francia e nei Paesi Bassi etc.) il ricorso alla consultazione popolare sull’Europa è temuto ed evitato come fosse un pericolo potenziale al progetto d’integrazione. Questo, a sua volta, ha indotto una maggiore alienazione dei cittadini rafforzando i timori legati al processo di integrazione europea. Così come nel paradosso dell’uovo e della gallina, le politiche di austerità in Grecia o in Irlanda confermano nelle persone l’idea che, a prescindere dalle scelte politiche fatte a livello nazionale, le decisioni importanti sono prese e imposte da altri – governi stranieri, istituzioni finanziarie internazionali ecc. – su cui l’elettorato nazionale non ha alcuna influenza diretta e spesso neppure molta conoscenza. Tutto ciò comporta il rischio di svuotare, indebolire e quindi delegittimare la democrazia e di mettere in pericolo il concetto dei ‘demos’ nazionali. E nello stesso tempo, queste reticenze nazionali impediscono l’avanzamento verso una reale, effettiva ed efficace democratizzazione europea. Così nasce il problema della legittimità delle decisioni nell’UE.
L’UE, nel passato, non attribuiva particolare importanza al rafforzamento della propria legittimità. Il processo decisionale era eccessivamente focalizzato sui negoziati intergovernativi e sulla creazione di meccanismi a livello europeo per controllare meglio le autorità comunitarie ed evitare così conflitti tra opposti interessi nazionali. Basata sulla constatazione che la maggior parte delle sue decisioni potevano essere attuate per mezzo della legittimità degli Stati membri, senza altri problemi o forti opposizioni, l’UE pensava di non avere l’obbligo di cercare una legittimità propria. Il metodo intergovernativo era considerato sufficiente allo scopo di far passare la legittimazione di queste ultime attraverso le legittimità nazionali. Allo stesso modo era considerato sufficiente dagli Stati, quale cautela davanti a un possibile ‘antagonismo di legittimità’.
La crisi finanziaria ha dimostrato i limiti di quest’approccio: gli Stati erano consapevoli della loro impossibilità di gestire la crisi a livello nazionale, ma anche avversi a passare le chiavi di questa soluzione, soprattutto quelle finanziarie, nelle mani dell’Europa. Così, i vari meccanismi di solidarietà economica (European Financial Stability Facility prima, ed European Stability Mechanism poi) sono stati creati al di fuori delle istituzioni comunitarie con un’enfasi inter-governativa e – per la maggioranza dei greci colpiti dalla crisi – a beneficio della potenza egemonica in Europa. Le misure imposte per ristabilire l’economia greca sono dunque percepite come imposte dalla Germania per salvaguardare i propri interessi – o forse quelli della zona euro – ma non quelli del popolo greco. È ovvio che in questa situazione l’assenza di legittimità di queste decisioni diventa cruciale per l’avvenire politico del progetto di unificazione europea.
Rafforzare la legittimità europea
Contrariamente agli Stati, un’organizzazione d’integrazione regionale non può, in generale, trarre la sua legittimità da emozioni o sentimenti di patriottismo e d’identità delle persone, di appartenenza ad un determinato gruppo o di attaccamento ad un determinato territorio, sentimenti che accrescono la legittimità di uno stato nazionale. In caso di crisi di legittimità a livello nazionale, la soluzione si trova nel rafforzare i sentimenti di appartenenza di tutti i gruppi cha fanno parte di quella comunità politica, poiché la maggior parte delle persone già accetta la legittimità degli stati. In un’organizzazione d’integrazione regionale la legittimità non può essere basata sui sentimenti ed emozioni legati all’identità; così deve trovare un altro modo per crearla e rafforzarla. Quel modo non può essere altro che il trasferimento graduale della fedeltà alle istituzioni sovranazionali. Tale trasferimento è fattibile solo con la consapevolezza – o il desiderio – che gli interessi precipui di un singolo (o di un gruppo) verranno meglio tutelati e protetti dal livello sovranazionale e che le sue (o loro) aspettative potranno essere ascoltate e forse realizzate dalle istituzioni a quel livello. Habermas tenta di disegnare le linee di un tale trasferimento nel concetto di ‘democrazia post-nazionale’. L’idea del ‘patriottismo costituzionale’ però non tiene sufficientemente in considerazione la permanenza dell’elemento degli interessi di gruppo. La legittimità sovranazionale sarà rafforzata per motivi talvolta meno nobili, e chiaramente con modalità meno sanguinose, di quanto accade con la legittimità patriottica nazionale.
I sostenitori di una maggiore integrazione europea, i movimenti federalisti, ma anche il Parlamento Europeo avevano capito l’importanza dei legami diretti tra governati e governanti a livello europeo. Avevano però focalizzato i loro sforzi sul rafforzamento dei poteri del Parlamento Europeo e sul superamento del deficit democratico attraverso la via parlamentare. Infatti, negli anni ’70 e ’80 la questione del ‘deficit democratico’ in Europa si riferiva principalmente ai limitati poteri del Parlamento Europeo e alla rivendicazione che quest’ultimo potesse, quale rappresentante dei cittadini europei, co-decidere insieme al Consiglio dei Ministri sulla legislazione europea. Questa battaglia è stata vinta: adesso in quasi tutte le aree di competenza dell’UE (esclusa la politica estera e in parte il bilancio) il Parlamento europeo ha gli stessi poteri del Consiglio, ma ciò non ha aumentato in modo rilevante la legittimità delle decisioni europee. Il Parlamento rimane un’istituzione secondaria nella percezione sociale relativa all’UE. Il calo di partecipazione alle elezioni europee era attribuito, tra l’altro, al fatto che queste non proponessero scelte sostanziali: l’elezione del Parlamento Europeo non produce un nuovo governo o un nuovo programma governativo, né modifica le politiche dell’Unione. Nonostante gli sforzi dei parlamentari europei non si è verificata una crescita dell’identificazione dei cittadini con il Parlamento dopo il 1979, anno della prima elezione diretta a suffragio universale.
L’errore forse risiede nel fatto che i sostenitori di un rafforzamento dell’istituzione parlamentare per assecondare meglio la richiesta di legittimità europea non avevano preso in considerazione che nelle società mediatizzate di oggi le istituzioni parlamentari perdono terreno in favore del potere esecutivo. Questa evoluzione accade a tutti livelli delle comunità politiche – municipalità, regioni e Stati. Sarebbe inopportuno pensare che la via maestra per la legittimità europea possa passare più facilmente dal rafforzamento dell’esecutivo piuttosto che del Parlamento? Infatti, durante tutto il periodo prima di Lisbona poco ci si era occupati del ruolo e della legittimità della Commissione e della sua natura di istituzione non-controllata e ‘antidemocratica’ così come della mancanza di ‘accountability’ nelle sue azioni.
Solo recentemente è iniziata una discussione sulla connessione tra elezioni europee e nomina della Commissione, così come un tentativo di fornire una legittimità parlamentare alla formazione dell’esecutivo europeo e delle sue politiche. Certo, la necessità di una maggiore e più diretta legittimazione della Commissione era già percepita fin dai primi anni 2000 e l’Unione aveva tentato di introdurre, durante i negoziati per il Trattato Costituzionale europeo, elementi di consenso popolare che non erano presenti all’inizio del processo d’integrazione europea. Alcuni di questi elementi sono stati mantenuti anche dopo il fallimento del progetto di Costituzione nel 2005, per esempio l’iniziativa legislativa europea. Un altro di questi era la connessione indiretta tra i risultati delle elezioni europee e quella del Presidente della Commissione.
Il fatto è che gli autori dei Trattati di Roma non avevano percepito la Commissione come un organo politico con coerenza ideologica, ma come un’istituzione tecnocratica che avrebbe agito per il bene comune e come custode dei trattati. La composizione della Commissione e il metodo di selezione dei suoi membri riflettono questa percezione. Poco a poco però, l’approfondimento dell’integrazione e il coinvolgimento dell’UE in attività con caratteristiche politiche sempre più intense, ha indebolito la neutralità ideologica della Commissione. Oramai, la Commissione deve esprimersi su questioni economiche, politica sociale, sviluppo regionale; è diventata un’istituzione con posizioni e preferenze politiche, di fatto, che non sono controllate ma sempre più determinano le posizioni dell’Unione. Questo è diventato particolarmente evidente e insopportabile negli ultimi anni in Grecia e altrove con le politiche di austerità sempre più stringenti imposte dalla ‘troika’ così come nella supervisione, da parte della Commissione, dei bilanci nazionali, prevista nelle varie regole adottate dalla zona euro durante gli anni della crisi per mantenere la stabilità dell’euro.
Un governo europeo votato dai cittadini?
La campagna per le elezioni europee del 2014 ha, per la prima volta, permesso di avere un avvio di ‘parlamentarizzazione’ dell’UE con gli ‘Spitzenkandidaten’, cioè i candidati dei partiti politici europei alla presidenza della Commissione. L’elezione di Jean-Claude Juncker ha dimostrato che la preferenza, relativamente maggioritaria, degli elettori è stata rispettata dagli altri partiti europei e, soprattutto, dai governi. Però dopo le elezioni, la sua designazione da parte del Consiglio europeo e la sua elezione da parte del Parlamento, Juncker stesso ha seguito la tradizione di negoziati con i governi per la nomina degli altri commissari. Rimane comunque che, per la prima volta, l’elezione del Parlamento è stata collegata, sebbene parzialmente, ad una scelta politica relativa all’esecutivo comunitario.
Certo, questo collegamento è ancora molto relativo: a parte i dibattiti pubblici tra tutti gli ‘Spitzenkandidaten’, la campagna elettorale dei partiti non è stata incentrata né sui candidati né su loro programma e le differenze tra questi. In taluni stati, come il Regno Unito, i partiti (i laboristi e anche i liberali) avevano espressamente rigettato le candidature unitarie dei loro partiti europei; in altri, il legame tra i partiti e i candidati alla presidenza della Commissione era quasi inesistente. La natura delle elezioni, ancora basata sui partiti nazionali e in gran parte dominata da temi domestici piuttosto che europei, impedisce una campagna veramente unitaria. Per avanzare verso la legittimazione dell’esecutivo europeo, è necessario insistere e organizzare meglio il sistema delle candidature.
In primo luogo, bisognerebbe evitare che vi sia una reazione da parte dei Capi di stato. La nomina di Juncker – anzi tutto il processo di pre-candidatura – è stata possibile anche perché i governi nazionali non si sono resi conto del pericolo potenziale alla loro libertà di scegliere il capo dell’esecutivo europeo. Forse tenteranno di impedirlo nel 2019. Se però questo precedente si ripeterà, sarà probabilmente un enorme passo in avanti nella legittimazione della Commissione. Questo passo dovrebbe essere seguito da una diretta ‘politicizzazione’ dei membri del collegio: un esecutivo di centro-destra o di centro-sinistra, con un programma politico ed economico in grado di orientare i fondi europei e di gestire i problemi europei con una visione più politica che tecnica potrà avere una forte legittimità e chiedere che le sue decisioni siano comunque seguite, poiché frutto delle scelte di voto dei cittadini europei.
Ovviamente, un’evoluzione in tal senso non risolverà la crisi greca né convincerà i greci a proseguire sulla strada delle riforme e dell’austerità senza fine. L’idea però che, votando l’esecutivo europeo sarebbe, forse, possibile cambiare il corso delle politiche in Europa, restituirà alle persone la fiducia nel processo decisionale delle istituzioni governative, tanto a livello nazionale che, in particolare, europeo.
Conclusione
Come accennato all’inizio di questo testo, la crisi in Grecia è stata soprattutto una crisi legata ad uno sviluppo economico errato frutto di scelte domestiche. L’uscita dalla crisi richiede, quindi, dei cambiamenti strutturali fondamentali nel Paese – che dovevano essere fatti molti anni fa, e che sono collegati all’evoluzione mondiale, la globalizzazione, la creazione di diversi equilibri in tutto il mondo, le nuove esigenze nelle nostre società e Stati. La Grecia deve, in ogni caso, far fronte alla corruzione, alla frode fiscale e alle inefficienze amministrative e deve modernizzare la propria economia. Questi cambiamenti interni, però, non possono nascondere i problemi dell’impianto istituzionale della zona euro che la crisi greca ha rivelato. Il dibattito sulla possibile Grexit – e dunque sull’irreversibilità dell’unione monetaria – è nocivo, non solo per la Grecia ma anche per l’Europa.
Non essendo economista, non posso giudicare se il proseguimento della strategia di austerità imposta dalla Germania sia giustificato o meno, anche se considero che le proposte contenute nell’ultimo pacchetto di misure, dopo l’accordo di luglio, non siano fattibili e rischino di perpetuare la recessione economica, e nello stesso tempo l’ostilità verso l’Europa. L’insistenza sul rispetto delle regole in materia di debito pubblico del Paese e le proposte di una Grexit come risposta ai fallimenti dell’Europa costituiscono una digressione perniciosa e dannosa ed un spreco di tempo. Sono in gioco, in primo luogo, la sopravvivenza della zona euro e, in secondo luogo, la sua capacità di costituirsi in una vera unione politica ed economica. Si tratta di questioni cruciali, e troppo importanti perché siano lasciate solo ai banchieri.
Gli Stati membri hanno capito che, com’è successo molte volte in passato, l’Europa deve scegliere tra fare passi indietro o andare avanti; l’immobilismo non può essere un’opzione. I passi indietro implicano il ritorno alle monete nazionali e a una concezione liberoscambista dell’Europa. Andare davanti significa il rafforzamento dell’unificazione politica ed economica, basata su un modello democratico e federale dell’UE. Ciò detto però, questa scelta impone la modifica degli elementi di legittimazione su cui si fonda l’Europa. La legittimità presuppone il rafforzamento della democrazia internazionale europea, la creazione di legami più stretti e più diretti tra le decisioni a livello europeo e di una volontà popolare europea (al singolare piuttosto che in 28) e un quadro chiaro di cosa si intende per ‘unione’ in Europa. Tutto questo impone un linguaggio chiaro davanti ai cittadini di cui abbiamo bisogno con urgenza, e una nuova narrativa dell’Europa per rinegoziare un progetto europeo riformato e una zona euro senza i ‘difetti di progettazione’ che hanno condotto alla crisi. Una ripresa del dibattito su ‘come si intende’ e ‘che fare con’ l’Europa è vitale per arrivare a un maggiore consolidamento e invertire la tendenza di rigetto che viviamo negli ultimi anni.

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