Dino Cofrancesco – COME SI RICONOSCE UN LIBERALE DAVVERO

I. Il trimestrale ‘Paradoxa’, l’anno scorso, ha dedicato un fascicolo (quasi) monografico (aprile/giugno 2011), a cura del sottoscritto, al tema Quelli che… la democrazia. Vi si esaminava criticamente il pensiero di autori che rivendicavano il loro diritto a parlare in nome del demos, ma incorrevano in aporie e contraddizioni che facevano trasparire una concezione della democrazia ‘sostantiva’ premoderna, ovvero ancora restia a prender atto della ‘sconsacrazione’ di termini come il ‘Bene Pubblico’ o la ‘Volontà generale’ da qualche secolo in atto nell’Occidente europeo.

Tarcisio Amato aveva trattato il tema Luciano Canfora e la democrazia; il sottoscritto aveva riproposto le sue riserve critiche sul tipo di democrazia liberale alla quale si richiama Gustavo Zagrebelsky; Daniela Coli aveva analizzato il nesso ‘democrazia’/’rappresentanza’ in un recente saggio di Nadia Urbinati; Alberto Giordano aveva discusso la ‘grammatica della democrazia’ di Michelangelo Bovero, Maurizio Griffo, traendo spunto da una tesi di Maurizio Viroli, aveva posto il problema Inclinazione alla servitù o difficoltà a metabolizzare il cambiamento?; Mario Quaranta aveva esaminato la democrazia secondo Paul Ginsborg; Daniele Rolando, infine, aveva fatto rilevare il paradosso di Massimo Salvadori relativo a una democrazia senza democrazia.

Come si vede, la legna messa al fuoco era tanta e meritevole di un ampio, meditato dibattito e, pertanto, i filosofi politici, gli storici, i giuristi chiamati in causa sono stati invitati dalla direttrice di ‘Paradoxa’, Laura Paoletti, a replicare alle critiche ad essi rivolti in un successivo numero della rivista affidato, questa volta, alla loro ‘scuola di pensiero’. La reazione, forse prevedibile, è stata un fin de non recevoir ma, per rispetto al principio della par condicio, il numero di risposta a Quelli che… la democrazia è stato egualmente messo in cantiere, a cura di Gianfranco Pasquino (gennaio/marzo 2012), col titolo Liberali davvero!

Il rapporto col fascicolo precedente, tuttavia, è inesistente: nessun tema allora sollevato è stato ripreso dai collaboratori di Pasquino che, per lo più, si sono occupati di classici antichi e moderni del pensiero liberale in saggi pregevoli, in cui hanno riconfermato, sic et simpliciter, la loro indubbia competenza in materia: v. i contributi di Domenico Fisichella (Montesquieu), di Salvatore Veca (John Stuart Mill), di Valeria Ottonelli (John Rawls). Gli altri autori – lo stesso Gianfranco Pasquino, Francesca Rigotti, Lapo Berti & Marcello Messori –, lungi dall’analizzare criticamente i rilievi che ad una scuola di pensiero ben precisa – che potrebbe chiamarsi, con l’esclusione del marxista Luciano Canfora, “post-azionista” – sono stati rivolti dal team di studiosi invitati a collaborare a Quelli che… la democrazia, se la sono presa con Angelo Panebianco, con Piero Ostellino, con Giuliano Ferrara, con i “liberali liberisti”, identificati con gli adulteratori del vero liberalismo, ma del tutto assenti nel fascicolo da me curato – evidentemente ne sono stati ritenuti i ‘persuasori occulti’. Ma quel ch’è peggio è che tutto il discorso ha avuto come punto di riferimento un ospite tutt’altro che “inatteso» – tenendo conto dell’aria che ancora oggi tira e delle disposizioni d’animo dei collaboratori di Pasquino, Silvio Berlusconi –, e si è risolto, in definitiva, in un atto di accusa nei confronti di sedicenti liberali, rei di aver sostenuto il Cavaliere (nonostante le sue ben note malefatte e la privacy scandalosa!), o di non averlo criticato come avrebbero dovuto se si fossero impegnati a prendere sul serio il liberalismo classico.

Rispondere alle argomentazioni dei “liberali davvero” è tempo sprecato, sarebbe come doversi difendere da accuse che, fondate o no che siano, sono indirizzate ad altri e che non riguardano minimamente il proprio lavoro intellettuale. Mi riferisco soprattutto ai due interventi di Gianfranco Pasquino – l’Introduzione. Alla ricerca dei liberali italiani e Madison, Tocqueville e la democrazia dei liberali italiani –, nei quali ai ‘falsi liberali’ vengono contrapposti classici antichi e moderni e persino il Nicola Matteucci del Liberalismo in un mondo in trasformazione (Ed. Il Mulino 1972), dimenticando che lo studioso bolognese continuò, fino all’ultimo, a collaborare al ‘Giornale’ di Vittorio Feltri, dopo aver collaborato a quello di Indro Montanelli (che, non dimentichiamolo, fondando ‘La Voce’ aveva definito fascistelli gli intellettuali che non lo avevano seguito nella nuova, fallimentare, avventura). Tra l’altro, nell’Introduzione, si sostiene una tesi che, a pensarla fino in fondo, avrebbe potuto spiegare assai bene le ragioni che portarono non pochi filosofi, storici e scienziati politici a ritenere l’esecrato berlusconismo non il “bene” (per carità!), ma il “meno peggio” rispetto ad una sinistra che, per vincere, è costretta ad allearsi con Antonio Di Pietro e Nichi Vendola, che rappresentano i punti di massima lontananza dall’universo liberale. Scrive, dunque, Pasquino:

«Il liberalismo non si preoccupa unicamente dell’eventuale influenza del potere economico sul potere politico. Si preoccupa altrettanto dell’eventuale tentazione/propensione del potere politico ad acquisire il controllo sul potere economico. I monopoli di Stato costituiscono palesemente contraddizioni profonde e intollerabili in un regime liberale. Per questa evidente ragione, senza andare a scomodare i regimi totalitari di stampo comunista, è innegabile che dal 1946 al 1992 la Repubblica italiana non può in nessun modo essere accomunata ai regimi liberali: democratica, sì (con elementi di socialismo reale come ha, ripetutamente e nient’affatto provocatoriamente, sostenuto il Presidente Francesco Cossiga); liberale, certamente, no».

A leggere queste parole, un liberale davvero non potrebbe che concordare. Altri passi dell’analisi di Pasquino, come certe sue letture di Tocqueville – per non parlare delle caricature che fa delle tesi di Piero Ostellino e di Angelo Panebianco sullo Stato e sul fisco – non sono altrettanto condividibili, ma il dissenso resta confinato all’interno di una dialettica liberale in cui le posizioni degli avversari vengono legittimate oggettivamente anche quando, per ragioni di piccola bottega politica, ad essi vengono sottratte le loro bandiere storiche per essere consegnate a pur eminenti studiosi che, negli anni cinquanta, vedevano (concediamo, ingenuamente) nella Costituzione sovietica il documento più avanzato in fatto di diritti umani.

Molto diverso è il contributo di Francesca Rigotti, Lettera da Koenigsberg: da Immanuel Kant ai liberali italiani, del quale non varrebbe certo la pena occuparsi per la debolezza delle argomentazioni teoriche e la sconcertante superficialità ‘ermeneutica’. Il motivo per cui ho ritenuto opportuno replicare alle sue critiche (rivolte in gran parte a me) sta nell’esemplarità, nel valore ‘didattico’ dello scritto che, come pochi altri, infatti, mostra, nella luce piena del giorno, gli equivoci annidati in una ‘filosofia politica’ che non riesce a liberarsi dall’ideologia, ovvero da una militanza etico-politica, che sarebbe del tutto legittima (ci mancherebbe!), se non si presentasse come portavoce dell’Umanità e dei suoi ‘esemplari’ meglio riusciti.

Così viene presentato dalla redazione il contributo della Rigotti:

«Vestendo i panni del filosofo di Königsberg, l’Autrice oppone ai suoi obiettivi polemici, Piero Ostellino e Giuliano Ferrara in primis, la concezione liberale o protoliberale kantiana che, lungi dal presentarsi come una dottrina per la salvaguardia della vita privata e dei desideri personali, riveste un forte carattere morale e pubblico. In Italia la cultura autenticamente liberale non è presente tra i rappresentanti di un partito che pure intende richiamarsi ai valori del liberalismo, né tantomeno tra coloro che si definiscono liberali sul piano politico ed economico».

Confesso di non essere riuscito a cogliere la sottile ironia e l’irresistibile humor dispiegati dalla docente dell’Università di Lugano, ma di essere trasalito nel vedere un rigoroso pensatore, così lontano dalla ‘petite politique’, come Kant, travestito da scatenato antiberlusconiano teologico. Parlando del Cavaliere, infatti, il falso autore delle tre Critiche diventa un ospite di Michele Santoro ad ‘Anno zero’, che, gongolante di gioia per il fatto di poter dire: «l’ex presidente del consiglio italiano Silvio Berlusconi (che bello scrivere ex, lo scrivo ancora e ancora, ex, ex, ex)», brinda con Marco Travaglio alla caduta del centro-destra, sotto sotto ne attribuisce una parte del merito ad Angela Merkel, e non perde l’occasione per rendere un omaggio ipocrita al governo dei tecnici (non si sa mai..). A suo avviso, bisogna

«andare alla ricerca di altri e migliori modelli di sovranità, come mi sembra che negli ultimissimi tempi sia fortunatamente successo anche in Italia, se per merito o no della Cancelliera del mio Paese non staremo a discutere».

La Rigotti, come tutti i moralisti di cui Stefano Rodotà ha tessuto di recente l’elogio, sembra non riuscire a capacitarsi che vi siano studiosi e politici che la pensano in maniera diversa e che, nonostante questo, meritino lo stesso rispetto dovuto a lei. Gli avversari, per il suo Pseudo-Kant, sono persone che hanno «la sfrontatezza di richiamarsi alla libertà e ai valori del liberalismo», sono ignoranti, come «il suddetto Herr Panebianco, che sembra non aver mai sentito parlare del liberalismo egualitario di John Rawls», fanno ragionamenti che «non brillano per coerenza logica né per capacità di trarre conclusioni supportate da un corpo specifico di evidenze», hanno uno stile «arruffato e un po’ opportunista»; cedono «continuamente di fronte a interessi di corporazione o individuali di carattere illiberale», ricercano un consenso «isterico concesso senza riflettere». Insomma tipi da non frequentare: moralmente discutibili, intellettualmente mediocri. Non intendo certo prendere le difese di Giuliano Ferrara, di Piero Ostellino, di Angelo Panebianco, le cui posizioni, peraltro, spesso non coincidono e non sempre mi convincono. Se si resta davvero sul piano del confronto teorico, sia pure serrato, in discussione sono soltanto le tesi, non i loro coerenti o incoerenti sostenitori.

L’assunto reale del discorso della Rigotti è semplice: in Italia quelli che si richiamano ai valori della società aperta sono barbe finte, mentre «i soliti intellettuali di sinistra sono molto più liberali dei liberali immaginari, anche se non lo sanno». I nomi e cognomi, però, non vengono fuori, sicché mentre le barbe finte sono note e citate, gli altri – discussi nel fascicolo Quelli che… la democrazia, su cui la Rigotti non ha ritenuto opportuno spendere neppure una mezza parola, de minimis non curat praetor – rimangono in una discreta penombra. O meglio se ne ricorda solo il nobile antenato Piero Gobetti, che lo Pseudo-Kant non esita a definire suo «degno erede in terra italica» per il coraggio con cui tentò di «estendere il linguaggio del liberalismo includendovi il movimento operaio ed espandendo i confini della dottrina dei diritti individuali per tutti» e «conciliare libertà ed eguaglianza». Anche i fantasmi possono lasciare la loro eredità a chi vogliono ma, nel caso di Gobetti, l’operazione sembra un po’ azzardata. La volontà di conciliare libertà ed eguaglianza sembra poco credibile in un intellettuale militante, come il fondatore di ‘Rivoluzione liberale,’ non troppo tenero, a causa del suo pervicace elitismo, nei confronti di quella che sarebbe stata poi la filosofia politica di Carlo Rosselli e di Guido Calogero – caratterizzata, appunto, dall’endiadi giustizia (leggi: eguaglianza) e libertà. Certamente, sono innegabili i momenti autenticamente liberali della lezione gobettiana (costituiti anche dall’esaltazione dell’odiato liberismo, non a caso si sentì sempre un allievo di Luigi Einaudi), ma ve ne sono altri che, come s’è ormai letto in tanti libri di storia delle dottrine politiche italiane – mi limito a citare i saggi del compianto Domenico Settembrini –, mostrano quanto sia problematico conferire la qualifica di liberale ad un giovane generoso che esaltava la rivoluzione sovietica, criticava i socialisti democratici ostili, per rispetto ‘professorale’ delle borghesi forme parlamentari, alla dittatura del proletariato (come Rodolfo Mondolfo), intratteneva ottime relazioni con Antonio Gramsci (una mente geniale – tanto da meritare la qualifica di Carl Schmitt del proletariato italiano – al servizio di un complesso disegno totalitario, come hanno dimostrato caterve di studiosi, a partire da Luciano Pellicani). Al suo ‘processo al Risorgimento’, va infine ricordato, dedicò pagine (fin troppo) severe non un mite studioso liberalconservatore, ma una delle personalità più eminenti di quel Partito d’Azione che è diventato “il termine fisso d’eterno consiglio” di una sinistra rimasta orfano del marxismo, Adolfo Omodeo.

Alla stessa maniera, trovo abbastanza strano l’arruolamento senza riserve di John Rawls nel campo liberale. ‘Liberalismo egualitario’, certo, quello di Rawls, ma una volta imboccata la via degli aggettivi che ‘specificano’, perché restringere il campo? E cosa impedirebbe di definire, ad esempio, ‘liberalismo nazionale’ quello di Giovanni Gentile – che a Kant fu altrettanto, se non più, devoto di Rawls, se non altro per la cura e la passione profuse nel tradurne gli scritti? In fondo, nel 1923, sulla rivista dell’allievo Carmelo Licitra, ‘Nuova Politica Liberale’, il teorico dell’attualismo pubblicò un saggio Il mio liberalismo, che potrebbe benissimo essere letto come una species del genus che la Rigotti vorrebbe preservare da ogni impura contaminazione liberista e mercatista (in linea, del resto, con le posizioni del gentiliano Genesi e struttura della società del 1943).

Sennonché lasciamo stare gli uomini e veniamo ai temi. Al Kant/Rigotti,

«teorico della ragion pura e della ragion pura pratica, sembra che la posizione di chi vuole imporre a tutti gli altri la propria concezione del bene sia ben diversa e sicuramente meno liberale di quella di chi lascia ognuno libero di ispirarsi alla propria concezione del bene senza imporre niente a nessuno».

E chi ha mai sostenuto il contrario, a parte qualche seguace di Monsignor Lefebvre (ne rimangono ancora tanti nella chiesa cattolica,) o qualche nostalgico di Mao (ne rimangono ancora tanti nella sinistra antagonista)? Era il caso di scomodare uno dei più grandi pensatori dell’Occidente per ribadire un principio così ovvio? I problemi, in realtà, nascono quando determinate categorie chiedono diritti e riconoscimenti riferiti a condotte e stili di vita, che non si vogliono certo imporre a tutti, ma che richiedono, in quanto tutelati da leggi dello Stato, l’impegno e il sacrificio di tutti. Non ci sono diritti di gruppi particolari, senza corrispondenti doveri della collettività: può essere giusto conferire a una coppia di fatto la stessa protezione giuridica di una ‘coppia naturale’ (se si può ancora usare questa espressione) e quindi ampliare i soggetti del ‘diritto di famiglia’, ma questo comporta – come tutti i diritti civili, politici e sociali – un onere, se non altro in forma di aumento del nostro debito col fisco, che non grava solo su quei gruppi. Che sia la maggioranza a doverlo decidere è un’eresia del nostro tempo, un segno di un giuspositivismo democratico indistinguibile dal populismo? E se viene esclusa la maggioranza – che, nel frattempo può ben avere maturate sensibilità morali impensabili fino a mezzo secolo fa, e quindi approvare le politiche di Zapatero ed oggi di Obama – dal momento che non hanno più competenza in materia altre agenzie spirituali (che possono tutt’al più influenzare soci e adepti), come la CEI e altre, affideremo la decisione ad un areopago di filosofi kantiani come la Rigotti? E chi farà parte di questa eletta schiera di funzionari della ‘ragion pratica’?

II. «Una legislazione che permette l’aborto o l’eutanasia non obbliga nessuno ad abortire o ad essere accompagnato dolcemente alla morte», si legge nel saggio, ma è poi lecito porre aborto ed eutanasia sullo stesso piano, per decreto irrevocabile del Tribunale etico? L’eutanasia, in fondo, riguarda solo chi intende farvi ricorso, l’aborto mette in gioco i diritti di un terzo (il nascituro) e, in quanto tale, non può non far meditare e ingenerare gli interrogativi drammatici che si pose un filosofo laico e onesto come Norberto Bobbio. Possiamo anche accordarci che dinanzi allo sconvolgimento di vita della madre che mette al mondo una creatura indesiderata, l’interruzione di gravidanza sia un minor male (e personalmente ne resto convinto), ma siamo, con ciò, autorizzati a relegare nella palude dell’oscurantismo quanti si pongono il problema? E, in ogni caso, se nessuno obbliga ad abortire o a spegnere, per noi, “lo dolce lome”, ma si riconosce un ‘diritto’ all’uno e all’altro gesto estremo, come la mettiamo col dovere dei medici di intervenire attivamente in operazioni che sono in assoluto contrasto con i loro convincimenti etici? Diremo che come un tabaccaio antisemita non può rifiutare la vendita delle sigarette a un ebreo col kipà, alla stessa maniera un medico di guardia antiabortista non può sottrarsi al dovere di far abortire una ragazza seriamente intenzionata liberarsi di un insopportabile fardello? Potrei anche essere d’accordo, purché non si riduca una problematica così complessa ad un peccato (per la Chiesa)», che si vorrebbe trasformato in reato (per lo Stato): possono esserci ‘peccati’ che, all’interno di certe visioni del mondo – che hanno lasciato tracce non superficiali nella nostra coscienza morale – tolgono senso e valore alla convivenza. Discutiamone pacatamente, ma senza demonizzare nessuno e senza relegare Burke e de Maistre nell’inferno dei reazionari su cui gettano sguardi di commiserazione, dalla balconata dei Campi Elisi, Immanuel Kant e John Rawls.

«Lo stato liberale – scrive la Rigotti – è neutro rispetto ai valori […] è laico perché ragiona fuori dall’ipotesi di Dio, etsi eus non daretur, come se Dio non esistesse, il che non significa che non esiste, ma vuol dire che bisogna sgomberare il campo da asserzioni dogmatiche».

Anche qui nessuna obiezione, ma bisogna intendersi bene: lo stato liberale è ‘neutrale’ solo rispetto alle credenze religiose dei cittadini, ma finisce di esserlo per quanto riguarda i simboli della comunità politica di cui nessuno stato può fare a meno, neppure quello liberale. In quanto italiani, non possiamo dirci neutrali dinanzi al Risorgimento, non possiamo mettere Cavour, Mazzini e Garibaldi sullo stesso piano di Solaro della Margherita, di Ferdinando II di Borbone, di Pio IX: i primi, pur nella loro irriducibile conflittualità, sono le ideali colonne portanti della nazione come plebiscito di tutti i giorni, come volontà di mantenere unite famiglie spirituali un tempo divise; gli altri appartengono al nostro passato (e come tali andrebbero anch’essi compresi e ‘rispettati’): sono le immagini di ciò che siamo stati e non vogliamo più essere.

Ognuno, certo, può interpretare il filosofo che gli è più caro a modo suo, ma non può sottrarsi alle conseguenze della sua interpretazione. Fare di Kant il teorico della «libertà come autodeterminazione razionale, come capacità di vivere secondo regole autoassegnateci in accordo con la ragione, e con altri condivise, non secondo desideri e interessi personali», fargli dire che il liberalismo, come da lui inteso, «non è una dottrina per la semplice salvaguardia della vita privata e dei desideri e interessi personali, bensì riveste un forte carattere morale e pubblico», significa ridurlo ad un teorico del ‘republicanism’, a un seguace prussiano di Jean Jacques Rousseau… se non di Maurizio Viroli (!). Non credo che le parole messe in bocca al solitario di Koenigsberg aiutino a comprendere il suo particolare liberalismo, ma, se così fosse, quest’ultimo verrebbe a trovarsi in posizione antitetica rispetto ad un altro liberalismo non meno ‘classico’, quello di Benjamin Constant. Il quale in Politique constitutionnelle aveva scritto che

«l’interesse generale altro non è se non la transazione che si opera attraverso gli interessi particolari […] l’interesse generale è distinto senza dubbio dagli interessi particolari, ma non gli è contrario.[…] Questo interesse pubblico non è altra cosa degli interessi individuali, messi in condizione di non nuocersi reciprocamente».

e, nel celeberrimo Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni del 1819, aveva affermato perentoriamente che «la nostra libertà deve fondarsi sul pacifico godimento dell’indipendenza privata». Sennonché qual era la base materiale di quella libertà, quei prerequisiti funzionali della ‘società aperta’ che avevano fatto di Atene l’unica repubblica del mondo antico comparabile all’Europa moderna? Rivolgendosi ai convenuti dell’Athénée Royal di Parigi, Constant era stato chiarissimo:

«Vi ho detto, Signori, che vi avrei riparlato di Atene, il cui esempio potrebbe essere opposto ad alcune delle mie asserzioni e che, invece, le confermerà tutte. Atene, come ho già riconosciuto, fu di tutte le repubbliche greche quella maggiormente dedita al commercio: perciò accordava ai suoi cittadini una libertà individuale infinitamente più grande di Roma e Sparta. Se potessi entrare nei dettagli storici vi mostrerei che il commercio aveva fatto scomparire da Atene molte delle differenze che distinguono i popoli antichi dai popoli moderni. Lo spirito dei commercianti di Atene era simile a quello dei commercianti di oggi. Senofonte ci informa che durante la guerra del Peloponneso essi trasferivano i loro capitali dal continente dell’Attica alle isole dell’Arcipelago. Il commercio aveva dato vita presso di loro alla circolazione. Notiamo in Isocrate tracce dell’uso delle lettere di cambio. Osservate anche quanto i loro costumi somiglino ai nostri. Nei loro rapporti con le donne vedrete – cito ancora Senofonte – che gli sposi sono soddisfatti quando la pace e una decorosa amicizia regnano all’interno della casa, sono indulgenti verso la sposa troppo fragile che cede alla tirannia della natura, chiudono gli occhi sull’irresistibile potere delle passioni, perdonano la prima debolezza e dimenticano la seconda. Nei loro rapporti con gli stranieri li vedrete prodigare i diritti di cittadinanza a chiunque, trasferendosi tra loro con la famiglia, intraprenda un mestiere o impianti una fabbrica; sarete infine colpiti dal loro estremo amore per l’indipendenza individuale».

La società libera, piaccia o non piaccia alla Rigotti ed al suo Kant immaginario, è la democrazia degli elettori ma è anche la democrazia dei consumatori: i primi con le loro scelte determinano gli orientamenti della politica – chi governa e con quali programmi –, i secondi la produzione e la distribuzione dei prodotti sul mercato. E come le competenze dei governi sono limitate dalle carte costituzionali, che fissano i diritti indisponibili, così le competenze dei mercati sono limitate dai “criteri di decenza” che impediscono di mettere in vendita qualsiasi cosa attivi un desiderio o lasci intravvedere un guadagno.

Ma chi è autorizzato a porre quei limiti, nell’uno e nell’altro campo? Se il peccato originale non avesse rovinato i giochi umani, il problema non si porrebbe: ciascuno di noi non chiederebbe alla politica e al mercato se non quel che è lecito e, dal momento che le nostre dotazioni intellettuali sono ineguali, non ci costerebbe nulla riconoscere le nostre insufficienze e affidare liberamente sia la produzione di norme sia la produzione di beni ai più dotati fra noi: in entrambi i casi, la democrazia non avrebbe alcun senso, sarebbe come mettere ai voti la tabellina pitagorica. E’ il “legno storto” di cui siamo fatti, invece, a determinare una condizione di incertezza ontologica per la quale, in mancanza di una verità (nel senso greco dell’aleteia), chiara nella mente di tutti, dobbiamo affidarci all’opinione, alla doxa : sicché dinanzi a un’alternativa di governi e di programmi, non essendoci nessun leader, che possa dirsi il vicario dello Spirito del Mondo, prevale la soluzione che ha riscosso la maggioranza dei voti.

La Rigotti, in un momento di distrazione, afferma che la teoria del ‘legno storto’, nell’interpretazione che ne danno gli intellettuali del centro-destra – riprendendola, com’è noto, da un illuminante saggio di Isaiah Berlin – è servita solo a ‘giustificare’ l’esistenza corrotta e dissoluta di Berlusconi. Cosa pensino gli intellettuali del centro-destra non mi riguarda – anche se posso dire onestamente di non aver mai letto una sola difesa d’ufficio del Cavaliere, tra le tante che m’è capitato di vedere sulle pagine di ‘Libero’ e del ‘Giornale’, che facesse riferimento al crooked timber… Mi limito, invece, a far rilevare umilmente allo Pseudo-Kant – che, questa volta, ce l’ha con me – che è dal ‘legno storto’ che deriva, in sostanza, la tesi dell’etica senza verità. Dire che l’etica è «senza verità» non significa far professione di un relativismo cinico che giustifica qualsiasi grado di corruzione, ma avere la consapevolezza che, weberianamente, «il mondo è pieno di dei» e che, tra i valori in conflitto, non si possono stabilire gerarchie che abbiano il nulla osta della ragion scientifica. Si può anche credere che la libertà e l’eguaglianza possano, spesso, venire a un accordo soddisfacente ma non si può ignorare che talora quell’accordo è difficile e che, diventando a somma zero il rapporto tra i due valori (che, tra l’altro, potrebbero esserci entrambi cari), la scelta su quale dei due subordinare all’altro, fertur in incognitum, non essendo iscritta in nessuna legge di natura.

III. Concediamo pure, col vero Kant, che a stabilire cosa è bene e che cosa è male sia «la facoltà della ragione, quella facoltà che distingue l’uomo da tutte le altre cose»; che la legge morale provenga «alla natura del ragionamento, dalle procedure della ragion pratica che richiede che si agisca secondo principi universali»; che «per superare gli scogli dello scetticismo e del soggettivismo occorra rivolgersi alle certezze della conoscenza morale», in che modo se ne potrebbe derivare l’eticizzazione della politica? L’imperativo categorico indica lo stato della mente in cui deve trovarsi ogni uomo di buona volontà che voglia vivere civilmente con i suoi simili e trattarli rispettando in loro la comune umanità e uomini di buona volontà se ne trovano sia tra i ‘progressisti’ sia tra i ‘conservatori’ (così come tra gli uni e gli altri abbondano i farabutti, sempre per via del crooked timber…) Ma cosa ne consegue sul piano concreto, ‘politico’, del tribuere unicuique suum? Se vengono messe da parte le preferenze delle persone e tanto più il mercato, «a chi tocca definire il merito e il talento?». La risposta, che si dà nell’articolo, è molto semplice: è la ragione che, in ultima istanza, è autorizzata a decidere il quid agendum: «non ci sono scappatoie: “agisci come se la tua massima dovesse al tempo stesso servire da legge universale”, dice l’imperativo categorico.[…] Questo vale per l’etica pubblica come per la morale privata, senza se e senza ma, e questo afferma il mio liberalismo etico, che lo si voglia adottare o meno».

Sennonché perché si dovrebbe supporre che la ragione che parla a Giuseppe Maranini o a Piero Ostellino sia meno ‘vera’ e meno kantiana di quella che parla a Piero Calamandrei e a Francesca Rigotti? Perché i dettami della ‘ragion pratica’ non potrebbero ispirare, con la stessa intensità, due intellettuali, due cittadini, due operatori economici, due politici, due sindacalisti che poi si troveranno divisi da scelte opposte?

«Come fate ad affermare la realtà negando la verità? – si chiede la mia critica – È il negare la possibilità di determinare norme etiche per la politica, affermato da Cofrancesco e altri liberali, reali o presunti, una posizione postmoderna? Tout va bien, purché vada bene al mercato? Non ci sono fatti, solo interpretazioni? Il mercato come unico grande ermeneuta? O sarà il popolo sovrano l’arbitro del bene e del male? Ci sono soltanto preferenze, non buone né cattive, e ognuno ha diritto a seguirle se corrispondono a quelle della maggioranza?»

Ci sono domande semplici che costituiscono fattori di complicazione della realtà e qui se ne ha un elenco niente male. Ma esaminiamo gli interrogativi in dettaglio.

«Norme etiche per la politica?» ma che significa: che non debbono trovarsi in circolazione personaggi come Luigi Lusi o Francesco Belsito? Che bisogna amministrare, in maniera onesta e competente, sia il proprio partito che lo Stato? Che sono da condannare, oltreché moralmente anche penalmente, i rei di corruzione e concussione? Che non sono ammessi favoritismi né politiche clientelari? etc. etc. Affermazioni così ovvie non avrebbero senso se non sottintendessero che la mancata osservanza di queste regole elementari di convivenza sia una prerogativa più della destra che della sinistra.

«Il mercato come unico grande ermeneuta?» E chi l’ha mai teorizzato? Il problema, negli anni della crisi del Welfare State, sta nell’impoverimento generale dovuto a costi di gestione che finivano per trasferire risorse da un settore sociale a un altro non sulla base del censimento dei veri indigenti ma in virtù del peso esercitato dai diversi gruppi di pressione. Quando ci si arricchisce non nel mercato e col mercato ma nello Stato e grazie ai favori distribuiti dai governi, il ritorno della palla al ‘popolo sovrano’ è segno di qualunquismo o significa semplicemente una richiesta, diffusa e condivisa, di rivedere le regole del gioco e i “costi della politica”?

Avere interiorizzato il processo di secolarizzazione significa rinunciare alla pretesa che da una parte ci siano il mercato (disumanizzante) e il popolo sovrano (spesso tentato d’imporre la ‘tirannia della maggioranza’) e, dall’altra, la ragione che stabilisce i ‘fatti’ e ne deriva, all’interno di un’etica cognitivista, le norme del bene e del male. E’ il “bello del liberalismo”, la sua dimensione autenticamente laica che sta al laicismo degli intellettuali militanti come il buon vino sta all’aceto. Non sembra questa, però, la filosofia della Rigotti che relativizza i valori o li assolutizza a seconda delle convenienze e che non sembra rassegnata a rinunciare a una base oggettivistica e razionalistica per i suoi asserti.

«Non ci sono fatti, solo interpretazioni?», rileva ironicamente. Nella politica “senza verità“, ahimé, è proprio così, nella scienza un po’ meno ma fino a un certo punto. In fondo, cosa sono, nei laboratori di ricerca medica, fisica, chimica etc., i ‘fatti’ se non interpretazioni sulle quali tutti concordano? Se uno nega che nella sua cucina l’acqua bolle a 100 °C, rischia la camicia di forza, mentre se avanza dubbi su una politica economica deflazionistica, si può trovare in disaccordo con molti ma nessuno pensa a farlo interdire.

«Ci sono soltanto preferenze, non buone né cattive, e ognuno ha diritto a seguirle se corrispondono a quelle della maggioranza?». Certo le cose stanno in questo modo, tenuto sempre conto che il principio che “la maggioranza non può tutto” viene riconosciuto da tutti. Le scelte non sono “buone né cattive” nel momento in cui si prendono giacché nessuno può essere sicuro dell’esito ma è costretto ad agire sulla base di ‘congetture ragionevoli’, guardando a ciò che è avvenuto in passato, facendo calcoli approssimativi dei costi che l’una o l’altra risoluzione comporteranno, contando, perché no?, sulla buona fortuna e sull’aiuto della Provvidenza. Le scelte, però, diventano buone o cattive, una volta che siano state fatte, quando se ne possono toccare con mano vantaggi e svantaggi, ed emergono le luci e le ombre di una politica economica più orientata al mercato (reaganiana) o di un’altra più orientata allo stato sociale (johnsoniana).
La Rigotti distingue

«la posizione del liberalismo realista (che ritiene che le scelte dei cittadini rappresentino le preferenze autentiche dei decisori) e quella del liberalismo critico o idealista, che solleva critiche al modo nel quale le preferenze si formano e si esprimono, in quanto sovente non espressivo dei valori e delle intenzioni autentiche dei cittadini»

ma, ancora una volta, il bersaglio polemico è del tutto immaginario. Il liberalismo realista ritiene che sia i cittadini che i consumatori preferiscano che a scegliere siano loro o non altri che, a differenza di loro, sappiano che cosa sia meglio per loro – dove questi altri, ma lo si dimentica spesso, possono essere sia i lettori di Karl Marx che quelli di Oswald Spengler e di Carl Schmitt. Ma ciò non significa affatto che «le scelte dei cittadini» siano le più sagge possibili e che «rappresentino le preferenze autentiche dei decisori» ma soltanto che non si vedono in giro persone affidabili alle quali rivolgerci per sapere quali siano le «preferenze autentiche dei decisori».

Quanto al «liberalismo critico o idealista, che solleva critiche al modo nel quale le preferenze si formano e si esprimono, in quanto sovente non espressivo dei valori e delle intenzioni autentiche dei cittadini», che cosa dire se non che rinvia ad abiti critici che, di volta in volta e nei vari contesti, possono caratterizzare sia il popolo di destra sia il popolo di sinistra? Le grandi ideologie, che dal Settecento a oggi hanno formato il senso comune delle nazioni, non hanno determinato sovente un moto di reazione e di insofferenza per cui la gente comune non ne poteva più a subire certi indottrinamenti di massa e ad essere continuamente esposta a messaggi che avrebbero dovuto far maturare nel suo animo l’uomo nuovo?

«Che dire quando la libertà risulta minata dai sottili meccanismi che disciplinano l’uomo, che lo adulano e gli forniscono piacere con consumi e spettacoli, asservendolo e togliendogli così la sua libertà? […] Foucault aggiungerebbe che la sottilità di questi meccanismi fa sì che essi possano costantemente rinnovarsi e adattarsi, acuendosi sempre più. E appunto per questo, li si sopporta sempre meno. Un sistema di sorveglianza particolare, di sguardi applicati e approfonditi su ogni individuo, è inutile quando già li si domina attraverso un sistema di stimoli, di consumi, di spettacoli, attraverso la presenza della televisione, e così via. Tutta una serie di elementi che non rinchiudono gli uomini in una classe, che non li «gulaghizzano», ma che anzi offrono loro possibilità di esistenza e fino ad un certo punto di piacere, che hanno effetti di regolarizzazione e di normalizzazione molto più sicuri, e molto meno frustranti dell’internamento in un’istituzione chiusa».

Quando penso alla ‘cultura della resa’ – come Federico Orlando intitolò nel 1976 una significativa raccolta di saggi, in cui eminenti studiosi tentavano di liberare la political culture nazionale da mitologie infeconde e spesso sanguinarie (Milano, Edizioni dello Scorpione) – che imperversava nelle università che ho conosciuto bene, ma altresì nei luoghi dello svago e del divertimento, se penso agli anni in cui una certa cultura era divenuta così invadente da esigere che lo spazio dedicato al tempo libero venisse riempito di contenuti etico-politici e persino la chierica – ovvero la rasatura rotonda che si fa sul capo del sacerdote – per citare don Benedetto, fosse spiegata col materialismo dialettico, non ho difficoltà a condividere le analisi di Foucault, anche se il filosofo francese e la sua ammiratrice italiana non si riferivano certo al mio vissuto esistenziale.

Il fatto è che le ‘influenze sociali’ sono tante e spesso conflittuali e che i tre poteri che controllano le risorse prodotte dagli uomini – politica, economia e cultura – non si trovano quasi mai nelle stesse mani e quando questo accade la proprietà è spesso più nominale che effettiva giacché a decidere rimangono le ‘tecnostrutture’ e non coloro che detengono il pacchetto di azioni di maggioranza.
La lettera di ‘Kant’ si conclude

«con alcune considerazioni sul tema della libertà: che è sicuramente un valore positivo, un termine valutativo per eccellenza, un ideale da perseguire, ma che nel caso venga eccessivamente e acriticamente venerato, anzi idolatrato e separato dal»

Nessun conclusione poteva essere più profonda di questa. Est modus in rebus o, più volgarmente, il troppo stroppia: è sempre bene accetto il richiamo alla saggezza dei secoli. Resta, tuttavia, quel piccolo, impertinente, interrogativo: chi fissa la linea oltre la quale il troppo è troppo? E se il disaccordo non verte sul principio giusto e sacrosanto che un valore non deve tiranneggiare gli altri, ma sul dove collocare quella linea, a soccorrerci sarà la ragione ma la ragione di chi? Se lo Pseudo-Kant designa per tale compito la ragione di Francesca Rigotti, uno Pseudo-Hayek non potrebbe designare quella di Piero Ostellino? Forse la differenza tra la Rigotti e Ostellino è che Ostellino parla solo… per bocca sua. E’ un vecchio liberale doc.

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