1. Introduzione
Nel presente contributo mi occuperò di tre questioni specifiche, tra loro interrelate anche se concettualmente distinte. La prima concerne la distinzione, affatto chiara sul piano dei principi ma non altrettanto su quello della prassi, tra responsabilità sociale dell’impresa (RSI) e filantropia di impresa. La seconda questione è bene resa dal seguente interrogativo: RSI e competitività sono obiettivi tra loro compatibili; come a dire, l’esercizio della RSI, nelle condizioni storiche attuali, è una pratica economicamente sostenibile? Da ultimo, volgerò l’attenzione ad alcune delle più diffuse critiche che vengono rivolte alla RSI per metterne a nudo l’inconsistenza del loro fondamento teorico.
Una considerazione di carattere generale prima di procedere. Non da oggi si dibatte sul punto se l’impresa debba avere obblighi di natura sociale, e non solo legale, nei confronti della società in cui opera. Non è dunque corretto affermare – come talvolta accade di leggere – che il tema della RSI costituisce una res nova dell’attuale fase storica contrassegnata da quel fenomeno di portata veramente epocale che è la globalizzazione. Fin dall’Umanesimo civile – il 15° secolo è il periodo in cui nasce e si diffonde la moderna economia di mercato – si sa che l’impresa sorge come impegno organizzato nei confronti della comunità. Piuttosto, quel che è vero è che, nel corso degli ultimi due secoli, è andata mutando l’interpretazione del concetto di responsabilità sociale, ossia la specificazione di ciò per cui l’impresa viene ritenuta responsabile. Invero, la RSI, come oggi la si intende, è una norma sociale di comportamento che esprime l’esigenza, oltre che l’opportunità, di valorizzare la dimensione pubblica dell’impresa. Con la RSI, l’impresa si mette figurativamente “in piazza”; entra cioè nell’agorà. E dunque si mette in gioco di fronte alla polis intera e non solo di fronte al mercato che ne è parte. È in ciò la vera novità della RSI. [Con la RSI l’impresa si mette in gioco di fronte alla polis. Questa è la novità]
Come una pluralità di ricerche empiriche ha da tempo messo in evidenza, la società attuale non considera più sufficiente – pur continuando a considerarlo necessario – che l’impresa si limiti a fare profitto per dirsi legittimata. È nota la posizione di Milton Friedman e dei suoi (meno celebri) epigoni di oggi. Nel suo famoso Capitalism and freedom del 1962, il fondatore della Scuola di Chicago scrive: «Vi è una sola responsabilità sociale dell’impresa: aumentare i suoi profitti… Il vero dovere sociale dell’impresa è conseguire i più elevati profitti – ovviamente in un mercato aperto, corretto e competitivo – producendo così ricchezza e lavoro per tutti nel modo più efficiente possibile». Il messaggio è chiaro: poiché il profitto è un indicatore sintetico di efficienza, l’impresa che ne ottiene di più fa il miglior uso possibile delle risorse scarse, evitando sprechi e distorsioni e dunque concorre a creare, pur non volendolo, «ricchezza e lavoro per tutti». Quanto a dire che valore economico e valore sociale finiscono con il coincidere nei fatti. Oggi però sappiamo che catena del valore economico e catena del valore sociale non sempre coincidono, e quando ciò avviene non è detto che debba essere la prima a prevalere sulla seconda. Può essere interessante ricordare, a tale riguardo, che l’espressione “corporate social responsibility” è di origine statunitense e che il movimento di idee ad essa associato è nato all’interno del mondo imprenditoriale americano e non già per impulso di una qualche autorità morale o politica. È lo stesso mondo delle imprese che, preso atto dell’esistenza di gravi law failures, cioè di fallimenti della legge, si rende conto della necessità dell’autoregolamentazione per tenere in vita le strutture dell’economia di mercato. Invero, fino a quando le economie sono rimaste nazionali si poteva pensare di affidare ai poteri dello Stato il compito di sopperire ai buchi della legge o addirittura alla sua mancanza. Con la globalizzazione, le relazioni economiche si sono denazionalizzate così che l’assenza di una governance globale pone in capo alle imprese stesse quel compito. In questo preciso senso, si può dire che quella della RSI è una norma di comportamento emergente.
2. L’oggetto della responsabilità sociale dell’impresa
Ciò premesso, mi dirigo alla prima delle questioni sopra indicate. La RSI non va confusa con la corporate philantropy, cioè con la filantropia d’impresa. La differenza tra le due sta in ciò che mentre l’atto filantropico è sempre, per così dire, ex-post, in quanto può prendere corpo solamente dopo che il profitto è stato conseguito, la responsabilità sociale dell’impresa è una pratica ex-ante e ciò nel senso che essa si manifesta prima ancora che l’impresa conosca i suoi risultati economici. Qual è, infatti, il ragionamento implicito del filantropo? Gestisco l’impresa secondo il principio della massimizzazione del profitto e se alla fine dell’esercizio registro che gli affari sono andati bene, decido di destinare parte dei profitti conseguiti a finalità di natura solidaristica oppure di utilità sociale. Si badi che al fondo della filantropia non v’è alcun commitment sociale, ma solo il principio di restituzione: devo “restituire” parte del profitto alla comunità, perché questa mi ha aiutato, in qualche modo, ad ottenerlo.
Giova ricordare che già intorno alla metà dell’Ottocento, in Europa dapprima e negli USA poi, inizia a prendere corpo l’idea di filantropia d’impresa. Si pensi agli interventi e alle realizzazioni degli Schneider al Creusot, dei Michelin a Clermond-Ferrand, di Ernest Solvay in Belgio e poi in Toscana, di Alessandro Rossi nel Vicentino, di Robert Owen in Inghilterra e così via: la vita degli operai e delle loro famiglie viene seguita, passo a passo, dalla nascita alla morte. Asili, scuole, servizi alla maternità, società musicali, pensioni, luoghi di culto: tutto è regolato in modo ordinato nel rispetto dei principi della più rigorosa gerarchia d’impresa. Relativamente agli USA, figure eponime del modello filantropico di capitalismo sono Andrew Carnegie e David Rockefeller. Del primo ricordo il libro, pubblicato nel 1889, con il significativo titolo, The Gospel of Wealth, dove sono metodicamente illustrati i principi della filantropia d’impresa. L’affermazione, rimasta celebre, di Carnegie, «A man who dies rich, dies disgraced» assai efficacemente sintetizza la sua filosofia di vita.
Un aspetto peculiare che la filantropia d’impresa ben presto assume nel contesto americano è l’utilizzo dello strumento giuridico della fondazione e, più genericamente, della forma non-profit per dare attuazione concreta alle opere sociali dell’imprenditore filantropo. Si tenga presente che la più parte delle organizzazioni non profit, negli USA, è stata creata da imprenditori capitalisti. Nel 1864, J.H. Dunant fonda la Croce Rossa e successivamente la “Worlds Young Men’s Christian Association”. Nel 1892, J. Muir fonda il celebre Sierra Club. Più recentemente M. Brown e A. Khazei fondano il “City Year”, per promuovere tra i giovani il servizio nazionale; W. Kopp dà vita al “Teach for America” per recuperare allo studio gli studenti svantaggiati, e così via.
Cosa fa, invece, l’impresa socialmente responsabile? Tre gli obiettivi principali che essa persegue: un’organizzazione post-tayloristica del lavoro; il democratic stakeholding; il coinvolgimento attivo dell’impresa nello sviluppo del suo territorio di riferimento. Vedo di chiarire. Una delle più significative sfide che l’impresa di oggi si trova ad affrontare è il modo in cui attuare il coordinamento dei compiti assegnati ai vari collaboratori, compiti che sono tra loro interdipendenti. Come si sa, l’interdipendenza ha duplice natura: tecnologica e strategica. Nel primo caso, sono le caratteristiche stesse del processo produttivo a fissare le modalità in cui deve realizzarsi il coordinamento. L’esempio tipico è quello della catena di montaggio e, più in generale, del sistema taylorista. Nella fabbrica o nell’ufficio “fordista”, il coordinamento viene realizzato a mezzo di gerarchia e di appropriati schemi di incentivo. La realtà dell’epoca post-fordista, invece, è dominata dall’altro tipo di interdipendenza. Quando questa è strategica il comportamento di ciascun membro dell’organizzazione dipende anche dalle sue aspettative circa le intenzioni e il comportamento effettivo degli altri. È in tal senso che Thomas Schelling – premio Nobel dell’economia – ha scritto che il coordinamento è, in situazioni del genere, un meeting of minds.
Il coordinamento delle decisioni all’interno dell’impresa non avviene sulla base del meccanismo dei prezzi. Infatti, con l’eccezione degli incentivi, assai raramente si usano i prezzi, entro l’impresa, per coordinare i compiti delle varie persone. È vero piuttosto che l’impresa si serve di strutture normative e di comando per realizzare il coordinamento interno delle decisioni. Ora, le norme di impresa hanno effetti sul comportamento delle persone che in essa lavorano e, alla lunga, sulle loro mappe cognitive oltre che sul loro carattere – effetti certamente più incidenti di quelli generati dalle norme del mercato, cioè dai prezzi e dai contratti. E se ne comprendono le ragioni: basti considerare che la più parte delle interazioni sociali avvengono non nel mercato ma all’interno di organizzazioni, come sono appunto le imprese.
Qual è la norma centrale attorno alla quale ruota l’organizzazione d’impresa? L’equità. Vediamo di afferrarne le ragioni. A causa dei pervasivi e crescenti fenomeni di asimmetria informativa e di incompletezza contrattuale, l’organizzazione interna d’impresa pone al management sfide affatto nuove rispetto a quelle dell’epoca fordista. Come evitare che comportamenti opportunistici del tipo free-riding e shirking (letteralmente: “scroccone” e “imboscato”, rispettivamente) raggiungano la soglia al di sopra della quale viene messa a repentaglio la vitalità dell’impresa? La letteratura “ortodossa” – quella, che si rifà alla teoria principale-agente – risponde: con l’adozione di appositi schemi di incentivo, il manager cercherà di estrarre da ciascuno dei collaboratori o dipendenti lo sforzo (effort) ottimale, così da perseguire, nel modo desiderato, gli obiettivi prefissati. Ora, anche a prescindere dalla circostanza che gli incentivi rappresentano pur sempre un elemento di costo, a volte ragguardevole, resta il fatto che, come l’ampia evidenza empirica in materia documenta, gli schemi di incentivo adottati dal principale tendono a produrre uno spiazzamento (crowding-out) delle motivazioni intrinseche dell’agente. Se questi è pagato per essere onesto e leale sul lavoro, gli altri agenti non considereranno più quello un comportamento moralmente ispirato. E dal momento che è quest’ultimo il comportamento cui è associata l’approvazione sociale, si ha che “pagare” per ottenere una condotta eticamente irreprensibile produce l’effetto di erodere, nel tempo, la forza delle motivazioni intrinseche degli agenti.
Ebbene, come parecchie storie di successo indicano, le imprese socialmente responsabili sono quelle che più efficacemente riescono ad utilizzare a proprio vantaggio il meccanismo della persuasione nei confronti di tutti coloro che con essa intrattengono rapporti. Si consideri l’esempio del lavoratore. Cosa fa sì che il collaboratore percepisca che il rapporto di impiego sia un esempio di scambio sociale piuttosto che di scambio di mercato? L’equità percepita, la quale incoraggia la cittadinanza d’impresa. Se il lavoratore osserva che i canoni di equità giocano un ruolo centrale nei rapporti fra impresa e stakeholder, egli arriverà a concludere che l’equità è un tratto dominante della cultura d’impresa e dunque che anche il suo contratto di lavoro è equo, un contratto cioè basato sui principi dello scambio sociale. E il dipendente che è persuaso di essere trattato equamente tenderà a reciprocare. Ma sappiamo anche che, alla lunga, chi pratica la reciprocità finirà con il considerare questo suo comportamento come un tratto caratteristico della propria identità. Viceversa se i collaboratori percepiscono che c’è incoerenza tra principi conclamati dall’autorità di impresa e ordini impartiti, si arriva al caos organizzativo.
Che dire dell’obiettivo del democratic stakeholding? L’idea, basicamente, è quella di consentire a tutti coloro che intrattengono rapporti con l’impresa la possibilità reale di partecipare, in qualche modo e in qualche forma, al processo decisionale. La partecipazione democratica è qualcosa di assai diverso sia dalla consultazione di tipo concertativo sia dalla trasparenza dell’informazione. Infatti, se l’impresa ha da essere l’istituzione che si adopera per rendere compatibili le esigenze avanzate dai vari portatori di interessi – come la teoria degli stakeholder dichiara di volere – allora l’attuazione della RSI esige che tutti gli stakeholder abbiano la possibilità di esercitare, nelle forme che dovranno essere individuate caso per caso, l’opzione voce nel senso di Hirschman.
In buona sostanza si tratta di passare dallo stakeholder management – in cui è il capo d’impresa o tutt’alpiù il consiglio di amministrazione a cercare, in modo più o meno paternalistico, di comporre i vari interessi spesso tra loro in conflitto – alla stakeholder democracy, un modello di governance in cui sono gli stessi portatori di interessi che, in quanto partners dell’impresa, condividono diritti e doveri. Chiaramente, l’attribuzione di diritti e doveri dovrà tenere conto delle specificità dell’organizzazione d’impresa. Ma è del pari evidente che se le imprese non intraprendono la via della democratizzazione, la probabilità di conservare nel tempo una vitale economia di mercato decresceranno progressivamente.
È evidente che l’attuazione pratica del democratic stakeholding presenta difficoltà di un certo rilievo. La più seria delle quali riguarda la scelta del modello di rappresentanza, vale a dire del modo in cui i vari stakeholder giungono a farsi rappresentare nella governance della impresa. Si pensi alla classe dei clienti. Per molte imprese potrebbe trattarsi di milioni di persone. Certamente, il modello di rappresentanza non può essere quello della rappresentanza politica e ancor meno quello sindacale. Si tratta, invece, di trovare forme adeguate allo scopo; ma su ciò una riflessione sistematica non è ancora iniziata. È tuttavia confortante constatare come, nelle economie dell’Occidente avanzato, vadano sempre più guadagnando terreno forme varie di governance democratica d’impresa: si pensi alle imprese cooperative, alle imprese ESOP, alle imprese sociali. Rinvio a D. Kruse (“Research evidence on prevalence and effects of employee ownership”, House of Representative, Feb.2002, Washington, DC.) per un’accurata indagine empirica circa la diffusione del democratic stakeholding nei paesi a più avanzato livello di sviluppo.
Infine, il terzo elemento che vale a definire cos’è la RSI è l’impegno dell’impresa nei confronti dello sviluppo del territorio in cui opera. È noto che il successo dell’impresa procede di pari passo con quello del territorio. Se quest’ultimo non è in grado di assicurare, poniamo, adeguati livelli di istruzione, servizi sanitari in linea con gli sviluppi delle tecnologie bio-medicali, forme assistenziali innovative per la famiglia, e così via, l’impresa mai potrà registrare successi significativi, quali che siano le abilità del suo management. È infatti risaputo che l’aumento dello stato medio di salute della popolazione incrementa in misura più che proporzionale il livello della produttività del lavoro. Lo stesso dicasi per il livello culturale medio e per i servizi che consentono di accrescere il tasso di partecipazione femminile al lavoro. L’impresa socialmente responsabile non può pensare di disinteressarsi a problemi del genere, ritenendo che alla soluzione di questi debba provvedere l’ente pubblico. La nozione di “amministrazione condivisa” cattura proprio il proposito che tra impresa e ente locale si attuino forme nuove e avanzate di collaborazione. In tal senso, la RSI è tra le vie più efficaci per creare quel capitale sociale di tipo linking che oggi è universalmente riconosciuto come il fattore decisivo dello sviluppo.
3. Responsabilità sociale versus competitività
Passo ora alla questione della compatibilità tra RSI e competitività. Perché si tratta di domanda non banale? Non lo è per la semplice ragione che porre in pratica la RSI, come sopra definita, comporta un innalzamento dei costi e questo non migliora certo, di per sé, la capacità competitiva dell’impresa, soprattutto in un contesto, quale quello odierno, in cui la competizione è diventata globale, non più nazionale. Possiamo dunque sciogliere in senso positivo l’interrogativo posto solo se si riesce a mostrare che le pratiche di RSI generano vantaggi, sia pure non immediati, tali da più che compensare i costi che esse comportano. Si pensi, per fare un solo accenno, al costo della democrazia economica. Non v’è da credere che, poiché la democrazia è un valore fondamentale, non abbia dei costi a suo carico, il più importante dei quali è il costo del processo di decisione collettiva. Si pensi anche ai costi che l’impresa deve sostenere per ristrutturare, in senso anti-tayloristico, la propria organizzazione interna del lavoro. Lo stesso vale per il commitment nei riguardi dello sviluppo del territorio. Che quello della compatibilità costituisca un problema non semplice da risolvere è cosa risaputa ed è forse per questo che quasi mai tale questione viene posta in cima alle agende degli studiosi e degli operatori. Eppure, non v’è chi non veda come tale nodo, che è in primis teorico, debba essere sciolto se si vuole uscire dal vuoto (e talora ipocrita) moralismo di chi pensa che, poiché la RSI è cosa buona in sé, per ciò stesso essa dovrebbe essere comunque attuata dall’impresa.
Ho due argomenti forti a sostegno della tesi secondo cui la RSI, alla lunga, “conviene” all’impresa in quanto ne accresce la competitività [Alla lunga la RSI conviene all’impresa in quanto ne accresce la competitività]. Il primo è che la RSI consente all’impresa di mobilizzare, nel massimo grado possibile, la conoscenza tacita (tacit knowledge) che è a sua disposizione allo stato potenziale. Si tratta di questo. Come si sa, la conoscenza è di due tipi principali: codificata e tacita. La prima (codified knowledge) è quella che può essere veicolata, e quindi trasmessa da persona a persona o da reparto a reparto, a mezzo di codici ovvero protocolli. Il lavoratore che legge attentamente il libro o il manuale di istruzioni è in grado di impossessarsi della conoscenza – sia pure con qualche scarto – che inizialmente era nella mente dell’autore. La conoscenza tacita, invece, è quella che alberga nella mente delle singole persone e che non può essere trasmessa ad altri se non con il loro deliberato consenso. Il celebre filosofo della scienza Michael Polanyi ha scritto pagine indimenticabili a proposito delle caratteristiche della conoscenza tacita e dei modi per renderla socialmente fruibile. Né il comando impartito per via gerarchica, né l’offerta di schemi di incentivo, più o meno sofisticati, potranno mai far giungere all’impresa quella conoscenza tacita di cui ogni collaboratore, anche il più umile o quello da poco entrato nella compagine aziendale, è sempre portatore, almeno in qualche grado.
Ebbene, il fatto veramente notevole è che, a causa delle peculiarità specifiche assunte dalle tecnologie infotelematiche (associate alla cosiddetta terza rivoluzione industriale), il successo della moderna impresa dipende assai più dalla sua capacità di estrarre conoscenza tacita da tutti i suoi collaboratori che non dalla sua abilità di veicolare la conoscenza codificata. E ciò per la semplice ragione che il successo è oggi legato a doppio filo all’innovatività (di prodotto, di processo, gestionale-organizzativa) e quest’ultima dipende soprattutto dalla conoscenza tacita. La ragione principale per cui non poche imprese oggi arrancano nella gara della nuova competizione è perché sono rimaste tayloriste e quindi incapaci di ottenere dai propri dipendenti quella conoscenza di cui sono portatori e che custodiscono gelosamente nella propria mente.
Che fare allora? La risposta che ancora la più parte degli esperti di organizzazione aziendale tende a dare è quella degli incentivi. Si tratta di “comprare” la conoscenza tacita, come se si trattasse di una merce qualsiasi. Ora, se è vero che nel breve termine lo strumento degli incentivi può sortire l’effetto desiderato, è del pari vero che nella prospettiva della durata la conseguenza sarebbe devastante. La ragione è che se si escludono le attività di routine, oggi svolte sempre più dalle nuove macchine, la gran parte del lavoro è di natura idiosincratica. L’applicazione ad un tale tipo di lavoro della logica degli incentivi conduce quasi sempre ad esiti fallimentari. Infatti, uno schema di incentivo nasconde sempre una relazione di potere: si offre denaro (o altro bene) per dirigere i comportamenti di un soggetto nella direzione voluta da chi dà l’incentivo. È bensì vero che tale relazione di potere è preferibile a quella generata dalla coercizione: è sempre meglio dare incentivi che coartare la volontà altrui. Ma la coercizione non è la sola alternativa possibile all’impiego di incentivi. Vi è infatti la persuasione, a sua volta sostenuta dall’approvazione sociale: il lavoratore che sa e vede che l’impresa in cui opera è attivamente impegnata sul fronte della RSI – come specificato nel paragrafo precedente – è naturalmente indotto a rivelare la propria conoscenza tacita perché ciò corrisponde al suo proprio bene. E nessuno odierà mai se stesso tanto da comportarsi in modo difforme da ciò che costituisce il proprio bene.
Il fatto è che la letteratura di scienza del management quasi mai considera che due sono gli effetti associati alla distribuzione di incentivi da parte di un principale. Quello diretto agisce sulla dimensione degli interessi dell’agente, il quale, pur di ottenere quanto pattuito, si comporta nel modo indicato nel contratto incentivante; l’effetto indiretto, invece, agisce sul sistema motivazionale dell’agente. Orbene, si può dimostrare che, nel lungo periodo, l’effetto indiretto tende a sopravanzare quello diretto. Gli studi empirici, che sono ormai schiera, mostrano inequivocamente che gli incentivi riducono sensibilmente il comportamento da “corporate citizenship” perché la lealtà, oltre che lo sforzo (effort), del lavoratore non possono essere oggetto di compravendita. L’impresa che concedesse ai propri dipendenti aumenti salariali, sotto forma di incentivi, ma che si comportasse in modo socialmente irresponsabile – in particolare, che offendesse la loro dignità umana umiliandoli o sottoponendoli a forme varie di mobbing – non riuscirebbe di certo ad acquisire la conoscenza tacita di cui sono portatori.
Non è per caso che alla base di tutti i grandi corporate scandals dell’ultimo ventennio troviamo un uso eccessivo di schemi di incentivo – si pensi, per un solo esempio, alle stock options offerte ai dirigenti. Come B. Frey e M. Osterloh (“Yes, managers should be paid like bureaucrats”, CES WP 1379, dic. 2004) documentano, a partire dal 1980 gran parte delle remunerazioni attribuite ai dirigenti d’impresa è stata legata a stock options. Nel 1970, un CEO (Chief Executive Officer) americano guadagnava 25 volte di più di un lavoratore dell’industria. Nel 1996, il medesimo rapporto era salito a 210 e nel 2005 a 500. Eppure, la performance delle imprese guidate da questi dirigenti non è aumentata nella medesima proporzione. Al contrario, sono ben noti gli effetti perversi: esasperato corto-termismo, aumento delle diseguaglianze, diminuzione dei livelli di produttività. Tanto che Michael Jensen, il grande teorico sostenitore degli schemi di incentivo, è stato costretto dalla realtà ad ammettere che “le stock options si sono dimostrate eroina manageriale” (“On CSR”, The Economist, Nov. 16, 2002). Né è per caso che le più accreditate ricerche empiriche di economia della felicità (basate sui World Values Surveis) ci informino che le pratiche di RSI aumentano significativamente il livello di benessere soggettivo delle persone, assai più degli aumenti delle remunerazioni monetarie.
A scanso di equivoci, faccio qui riferimento a pratiche effettive di RSI, non alle vuote declamazioni retoriche che spesso accade di registrare. Per limitarmi ad un esempio recente, tristemente balzato agli orrori della cronaca, la multinazionale tedesca della siderurgia Tyssen Krupp – che ha acquisito lo stabilimento di Torino dall’IRI nel 1994 – da anni ha avviato un piano di RSI controllato da due fondazioni di impresa a carattere filantropico. «Accendere l’entusiasmo dei nostri dipendenti è il nostro fine» – così si legge nel sustainability commitment della multinazionale. Eppure, in tredici anni, questa impresa non ha adottato quei sistemi di sicurezza che avrebbero certamente evitato la tragedia umana del dicembre 2007 [In tredici anni la Tyssen-Krupp non ha adottato i sistemi di sicurezza che avrebbero evitato la tragedia del dicembre 2007]. Lo stesso dicasi di Enron, vincitrice nel 2000 – l’anno precedente il suo colossale fallimento – del premio americano per il miglior bilancio sociale. Nel Rapporto 2000 sulla responsabilità sociale di Enron, si legge: «Noi vogliamo lavorare per promuovere il rispetto reciproco con la comunità e i portatori di interessi che sono toccati dalla nostra attività. Noi trattiamo gli altri come vorremmo essere trattati noi stessi». Una frase, quest’ultima, che suona veramente sinistra.
Ma v’è un secondo cogente argomento a difesa della tesi per cui la RSI è una strategia sostenibile per l’impresa che decide di porla in pratica. Esso ha a che vedere con una novità emergente della attuale fase storica: la responsabilità sociale del consumatore. La figura, ormai in via di superamento nei paesi dell’Occidente avanzato, del consumatore come ricettore passivo delle proposte d’acquisto che gli vengono dalla produzione va cedendo il passo alla figura del consumatore critico – o etico, come taluno preferisce chiamarlo. Si tratta di un soggetto che, con le sue decisioni d’acquisto, intende contribuire a “costruire” l’offerta di quei beni e servizi di cui fa domanda sul mercato. Non gli basta più di prestare attenzione al solo rapporto qualità-prezzo; vuole anche sapere come quel certo bene è stato prodotto e se nello svolgimento della sua attività l’impresa ha violato i diritti fondamentali dei suoi dipendenti o ha danneggiato in modo irreversibile l’ambiente.
Si prenda il caso, ormai classico, della multinazionale Nike. Dopo che alcune associazioni di consumatori avevano denunciato lo scandalo del lavoro minorile e mal pagato in India e Pakistan, il titolo Nike precipitò dai circa 66 dollari dell’agosto 1997 ai 39 dollari del gennaio 1998, e ciò in conseguenza di una ben orchestrata campagna di boicottaggio. (Esperienze analoghe sono capitate alla Reebok e alla Nestlé. Inoltre, come non ricordare quel che accadde alle imprese che producevano il napalm durante la guerra in Vietnam o a quelle che nel corso degli anni sessanta e settanta sostenevano l’Apartheid in Sudafrica?). Ma v’è di più.
Recenti indagini di mercato hanno evidenziato come l’80% dei consumatori europei si dichiari propenso a favorire lo sviluppo di imprese impegnate seriamente sul fronte della RSI. E il 72% dei consumatori italiani intervistati ha dichiarato che sarebbero propensi a pagare un prezzo più elevato per i beni che acquistano se avessero certezza (e garanzie) che le imprese in gioco si sottopongono alla certificazione sociale (del tipo Social accountability, SA 8000) e si impegnano in iniziative socialmente rilevanti. E il 55% delle persone è disposto a fare “l’evangelizzatore” della marca che dimostra di impegnarsi in modo socialmente responsabile. (SA 8000 è un sistema di responsabilità sociale predisposto, nell’ottobre 1997, dal CEPAA – Council on Economic Priorities Accreditation Agency – un ente non profit americano che, nel 2001, si è trasformato in SAI – Social Accountability International). Il sistema SA 8000 viene liberamente scelto dalle imprese per segnalare ai consumatori socialmente responsabili che i propri prodotti sono stati ottenuti rispettando tutta una serie di parametri riguardanti le condizioni di lavoro e di rispetto dei diritti fondamentali. In pratica, si tratta di parametri che in qualche modo misurano “l’eticità” dell’intero ciclo produttivo.
Il boom dei fondi etici e della cosiddetta finanza etica per un verso, e la crescita inaspettata del commercio equo e solidale, per l’altro verso, confermano appieno questi dati statistici. In buona sostanza, la tendenza in atto sembra confermare l’intuizione di J.S. Mill – uno dei più alti punti di riferimento del pensiero liberale – quando, intorno alla metà dell’ottocento, aveva formulato il principio della sovranità del consumatore. Il consumatore è sovrano – scriveva Mill – quando, decidendo liberamente del proprio potere d’acquisto, è in grado di orientare, secondo il suo sistema di valori, i soggetti di offerta sia sui modi di realizzare i processi produttivi sia sulla composizione dell’insieme di beni da produrre). Chiaramente, nel 19° secolo i tempi non erano ancora maturi perché questa sovranità potesse trovare concreta traduzione. Oggi la situazione va rapidamente mutando sotto i nostri occhi: è percepibile il protagonismo della nuova figura del consumatore-cittadino. Tanto che già si è cominciato a parlare di mutual social responsability come stadio ulteriore del processo di RSI. L’idea, in buona sostanza, è che l’impresa che riesce ad instaurare rapporti più evoluti e stabili con i consumatori acquisisce un importante fattore di vantaggio competitivo. È questo un elemento da non sottovalutare in chiave di marketing strategico, tenuto conto dell’enorme potere che, grazie a internet, sta assumendo il passaparola (il cosiddetto word of month).
Giova osservare che la figura del consumatore-cittadino e la sua centralità non nascono dalla “resa” dei soggetti di offerta, ma dalla capacità di questi ultimi di comprendere che a nulla varrebbe ostacolare o non tenere in debita considerazione la positività del primo. A ben considerare, si tratta di capire che siamo oggi di fronte ad un passaggio d’epoca, quello dalla libertà di scelta come potere di autodeterminazione – secondo cui la libertà è valutata per ciò che essa consente di fare e di ottenere – alla libertà di scelta come potere di autorealizzazione, come potere cioè di scegliere non solo il mezzo migliore per un dato fine, ma anche il fine stesso. In definitiva, sarebbe illusorio pensare oggi al consumo come mera cinghia di trasmissione del momento della produzione, e come strumento per migliorare la bilancia valutaria del paese o per accrescere il reddito di una determinata regione. Se l’obiettivo da perseguire è quello di come giungere ad un ordine sociale più avanzato sotto il profilo della democrazia e della libertà, allora il consumo non può non configurarsi come fattore di civilizzazione, evolvendo verso forme culturalmente sempre più ricche.
Alla luce dei due argomenti sopra abbozzati si riesce a comprendere perché la RSI, nonostante il suo costo, “convenga” all’impresa che vuole rimanere a lungo nel mercato. Nelle condizioni attuali, la RSI rappresenta una delle forme più avanzate di innovazione: ecco perché l’imprenditore schumpeteriano la vede con occhio interessato.
4. Del fondamento delle critiche alla RSI
All’ultima delle tre questioni indicate volgo ora l’attenzione, sia pure in breve. Da tempo la RSI è un tema sotto attacco. I suoi detrattori non mancano di dichiarare, in ogni occasione propizia, che siamo di fronte ad una operazione di mera cosmesi per dare alle imprese la maschera del volto umano. Per costoro, la RSI sarebbe nulla più che una tassa che il top management deve pagare alla società nel suo complesso per poter apparire virtuoso, accrescendo in tal modo il proprio capitale reputazionale. Più sottilmente, una delle critiche più devastanti rivolte alla RSI è che questa serve di fatto da paravento per consentire ad imprese senza scrupoli morali di eliminare dal mercato i propri rivali o di ridurne la forza competitiva. In breve, l’argomento è il seguente. Si assuma che sul mercato operino imprese opportuniste ed imprese intrinsecamente motivate verso la RSI e si assuma altresì che i consumatori critici, oggi in aumento ovunque, siano disposti a premiare le seconde e a sanzionare (con il boicottaggio e con campagne di denuncia) le prime imprese. Può allora accadere che imprese opportuniste decidano di comportarsi inizialmente in maniera ancora “più etica” delle altre allo scopo di marginalizzarle sul mercato e di tornare poi a comportarsi alla vecchia maniera senza remora alcuna. Chiaramente eventualità del genere saranno tanto più probabili quanto più le istituzioni pubbliche interverranno offrendo favori o riconoscimenti vari alle imprese che accettano di conformarsi alle linee guida della RSI da esse fissate. In questi casi, la RSI diventerebbe un modo per fare crowding out, per spiazzare cioè le imprese virtuose ed accrescere la rendita monopolistica di quelle senza scrupoli.
Un’ulteriore critica rivolta alla RSI è che i comportamenti socialmente responsabili possano occultare un pericoloso trade-off, quello tra impegno morale e impegno sociale (social commitment). Come sappiamo, la logica specifica della RSI è quella di rifiutare la celebre dicotomia di J.S. Mill tra leggi della produzione e leggi della distribuzione della ricchezza. Non è socialmente responsabile l’impresa che, mentre produce ricchezza, non guarda troppo per il sottile alla difesa dei diritti umani, al rispetto e all’integrità morale delle persone, ecc., e diventa compassionalmente generosa nel momento della distribuzione della ricchezza prodotta. Gli accennati casi storici di A. Carnegie e di J.D. Rockefeller negli USA di fine Ottocento sono, assieme a tanti altri casi contemporanei, esempi eloquenti di cosa significhi, nella pratica, accettare la dicotomia milliana. Ebbene, il pericolo cui sopra si accennava è che con il social commitment, falsamente confuso con al RSI, manager cinici possano coprire l’assenza di scrupoli morali. E poiché la capacità di donazioni filantropiche è correlata alle dimensioni di impresa, potrebbe accadere che i grandi gruppi d’impresa riescano, più facilmente dei piccoli, a “comperarsi” la reputazione ritenuta necessaria, salvo mutare strategia quando il contesto competitivo diventasse particolarmente severo. (Si veda il numero speciale dell’Economist del 22 gennaio 2005 per una superficiale e spesso banale elencazione delle critiche alla RSI)
C’è sicuramente del vero al fondo di un tale scetticismo, ma questi grumi di verità non bastano a rendere vano lo sforzo di coloro che vedono nella RSI una via pervia per arrivare a rendere più civili le nostre economie di mercato. È proprio questo il punto centrale di tutto il dibattito in corso. Se la RSI viene vista come mero strumento per sopperire alle asimmetrie informative e per accrescere le quote di mercato delle imprese, allora hanno ragione i suoi detrattori. Invero, se il fine ultimo che si intende perseguire è l’efficienza economica, la legge e un raffinato sistema di controlli e sanzioni è tutto quanto serve alla bisogna. Ma se il fine ultimo è la civilizzazione del mercato, allora le critiche alla RSI sono prive di fondamento. [Se il fine ultimo è la civilizzazione del mercato, allora le critiche alla RSI sono prive di fondamento] Perché la RSI produce non solamente un valore strumentale, ma anche un valore espressivo che è certamente misurabile, sia pure in modo differente da quello con cui si misura il valore strumentale dell’impresa. Mentre al management dell’impresa “alla Friedman” nessuno chiederà mai di dare conto del valore espressivo da essa generato, il manager dell’impresa socialmente responsabile deve poter dare evidenza del valore aggiunto sociale che la sua azione genera.
Si comprende allora perché è assai più difficile impegnarsi con la RSI che praticare la filantropia di impresa. L’imprenditore civile – quello cioè che prende sul serio la RSI – è mosso all’azione da motivazioni non solo estrinseche – quali sono quelle che hanno natura esclusivamente teleologica: si compie una determinata azione per trarre da essa il massimo risultato possibile. (Così è lo speculatore, finanziario o di altro tipo). Quello civile è un imprenditore che possiede anche motivazioni intrinseche, quelle per cui si fa qualcosa per il significato, il valore proprio di quel che si fa. Queste motivazioni scaturiscono da una speciale passione per gli altri, quella passione che vale a scongiurare il rischio mortale della teleopatia. Secondo K. Goodpaster (Conscience and corporate culture, Oxford, Blackwell, 2007), la struttura logica della sindrome teleopatica – oggi sempre più diffusa – contempla tre elementi: la fissazione di un obiettivo che va perseguito ad ogni costo; la razionalizzazione del comportamento dell’organizzazione in nome di quell’obiettivo; il distacco da ogni canone morale, cioè l’anestitizzazione della coscienza come conseguenza di quella razionalizzazione.
Quando la teleopatia guida il processo decisionale di un’impresa si realizza quella schizofrenia morale di cui parla J. Ladd: le imprese sono istituzioni in cui: «gli interessi e i bisogni degli individui devono essere considerati solo nella misura in cui pongono condizioni operativamente limitanti. La razionalità organizzativa impone che questi interessi e bisogni non devono essere considerati come un diritto o come conseguenza di un qualche merito. Se pensiamo ad una organizzazione di imprese come ad una macchina si capisce perché non possiamo ragionevolmente aspettarci che essa abbia una qualche obbligazione morale nei confronti delle persone e che queste ne abbiano nei suoi confronti». (“Morality and the Ideal of Rationality in Formal Organizations”, The Monist, 2, 1970, p.507; corsivo aggiunto). L’impresa sarebbe dunque un soggetto amorale. Ne consegue che «non possiamo e non dobbiamo aspettarci che le organizzazioni formali, o i loro rappresentanti, quando agiscono in quanto tali, siano onesti, coraggiosi, simpatici o che esibiscano una qualche integrità morale… Azioni che sono censurabili in base agli standard morali classici non lo sono per le organizzazioni. Spionaggio e frode non rendono censurabile l’azione dell’organizzazione; piuttosto, esse sono proprie e razionali se servono gli obiettivi dell’organizzazione». (Ib.)
Come si comprende, la posizione filosofico-morale di Ladd è agli antipodi di quella prospettata dall’etica delle virtù. (Rinvio a S. Zamagni, “La critica delle critiche alla CRS e il suo ancoraggio etico”, in L. Sacconi (a cura di), Guida alla RSI, Roma, Bancaria Ed., 2005, per un approfondimento). Se per la prima la condotta organizzativa non ha da conformarsi ai canoni della moralità, essendo l’impresa una macchina, la seconda posizione accoglie piuttosto il principio della proiezione morale, secondo cui le organizzazioni sono proiezioni delle persone che in esse operano. Come si esprime Lynn Paine: “Grazie a tale principio … le imprese finiscono per essere considerate come attori morali in sé. In quanto tali, si presume che esse abbiano non solo funzioni tecniche, come produrre beni e generare profitti, ma anche attributi morali, come responsabilità, fini, valori, impegni”. (Value Shift, Oxford, 2003, p.122). Per l’etica delle virtù, allora, l’esecutorietà delle norme dipende, anzitutto, dalla costituzione morale delle persone, cioè dalla loro struttura motivazionale, prima ancora che da sistemi di enforcement esogeno. È perché vi sono agenti che hanno preferenze etiche – agenti cioè che attribuiscono valore al fatto che l’impresa pratichi la RSI indipendentemente dal vantaggio materiale che ad essi può derivarne – che il codice etico d’impresa sarà rispettato anche in assenza di meccanismi come quello della reputazione.
La cifra dell’etica della virtù, infatti, è nella capacità di risolvere, superandola, la contrapposizione tra interesse proprio e interesse per l’altro, tra egoismo e altruismo. È questa contrapposizione, figlia della tradizione di pensiero individualista, a non consentirci di afferrare ciò che costituisce il nostro proprio bene. La vita virtuosa è la vita migliore non solo per gli altri – come sostengono le varie teorie dell’altruismo – ma anche per se stessi. È in ciò la ragione ultima per “essere etici”. Infatti, se non è bene per se stessi comportarsi in modo etico, perché non fare ciò che è bene per sé, anziché fare ciò che è raccomandato dell’etica? D’altro canto, se è bene per sé “essere etici”, che bisogno c’è di offrire incentivi agli agenti perché facciano ciò che è nel loro stesso bene fare? La soluzione al problema del comportamento morale del soggetto non è quella di fissargli vincoli (o di offrirgli incentivi) per agire contro il proprio interesse, ma di prospettargli una più completa comprensione del suo stesso bene. Seguendo l’etica delle virtù, quello del comportamento morale cessa di essere un problema, dal momento che siamo automaticamente motivati a fare ciò che crediamo sia bene per noi.
Vado a concludere. Ha scritto G. Chesterton: “Tutta la differenza tra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita; ma una cosa creata si ama prima di farla esistere”. In tale preciso senso, l’imprenditore civile è un creatore, a differenza dell’imprenditore non civile che è un mero costruttore.
Si può pensare all’impresa come la corda tesa di un arco. La corda è la spinta, l’arco è il freno, cioè il contesto di mercato in cui l’impresa si trova ad operare. Se l’arco non rompe la corda, permette a questa di scagliare frecce molto lontano. Purtroppo, parecchi sono coloro che cercano di spezzare la corda tendendendo l’arco oltre al suo massimo con impedimenti e difficoltà di ogni tipo. Bisogna allora rafforzare la corda: è in ciò il senso ultimo della responsabilità sociale dell’impresa.