1. A chi insiste nel mostrare la cecità della sorte, il Torquato Tasso di Goethe (2° atto, terza scena) obietta in due splendidi versi che anche la giustizia è bendata e chiude gli occhi davanti a ogni miraggio. Anche in questo, come in moltissimi altri casi, Goethe riassume magistralmente una tradizione radicata e antichissima. L’idea che la giustizia non veda,anzi che non debba vedere,è costante nella tradizione iconografica dell’Occidente [L’idea che la giustizia non veda è costante nella tradizione iconografica dell’Occidente] e trova le sue radici sia nella tradizione ebraico-cristiana che in quella greca. Quando negli Atti degli Apostoli (X, 34-35) Pietro confessa che Dio, nella sua somma giustizia, non fa preferenza di persone,l’espressione che poi la Vulgata ha reso con non est personarum acceptor Deus suona in greco prosopolemptés:termine in cui è evidente la presenza del termine prósopon,che significa volto:in altre e più rozze parole Dio è giusto, perché non guarda in faccia a nessuno.
Ma come la giustizia, la compiuta e perfetta giustizia, è cieca,così deve anche essere sorda:non può e non deve prestare orecchio a preghiere e a suppliche. Il tema emerge con molta efficacia in Livio (Ab urbe condita, II.3), quando egli ci narra del dibattito che seguì a Roma al crollo della monarchia e all’instaurazione del consolato, cioè di un regime che non si fonda sulla benevolenza di un sovrano, ma sulla fredda impersonalità di legge e giustizia: da una persona si possono ottenere favori e benefici, essa può irritarsi, ma può anche perdonare; mentre la legge rem surdam, inexorabilem esse…nihil laxamenti nec veniae habere, si modum excesseris. Viene alla mente, leggendo queste righe, il testo di un sobrio epitaffio, in cui il defunto, Cneo Cornelio Basso, parla dal regno dei morti e descrivendone le leggi sacre e inviolabili si esprime in modo per l’appunto lapidario: Hic summa est severitas.
Già nell’antichità la severitas della Giustizia appariva però conturbante. Aulo Gellio (XIV.4) ci ha tramandato la descrizione allegorica della Giustizia elaborata dal filosofo stoico Crisippo e bisogna ammettere che da questa descrizione la Giustizia non ne esce molto bene: «Si dice che essa sia una vergine, perché ciò simboleggia il suo carattere incontaminato, il suo nulla concedere ai malvagi e il fatto che non la toccano né i discorsi indulgenti, né la supplica o la preghiera, né l’adulazione, né alcun’altra cosa di questo tipo. Di conseguenza la si dipinge accigliata, col volto rigido, con lo sguardo intenso e terribile, sì da infondere spavento negli ingiusti, coraggio nei giusti, poiché a questi appare amabile quel volto, agli altri invece ostile». Di estremo interesse il commento conclusivo di Gellio: «Ho ritenuto che sia il caso di riportare queste parole di Crisippo verbalmente, perché siano a disposizione di chi voglia giudicarle e valutarle; giacché mentre noi le leggevamo, alcuni filosofi più delicati hanno obiettato che questa non è l’immagine della giustizia, ma della crudeltà (saevitia)».
Il buon senso di Aristotele aveva ben percepito il problema: nell’Etica Nicomachea,da una parte, dopo aver definito la legge ragione senza passione,afferma espressamente che non deve essere l’uomo a comandare, bensì il logos (V.6.5. 1134a-1134b), dall’altra esorta però l’uomo a non cedere alla tentazione di divenire akribodíkaios (V, 1137b-1138a: rigido nella legge in ciò che porta al peggio, traduce Plebe). Si tratta in fondo dello stesso monito che leggiamo nell’Ecclesiaste: Noli esse justus multum e che, presente in tutta la letteratura sapienziale classica, trova la sua espressione più efficace nel motto Summum jus, summa iniuria o in quello del tutto analogo di Menandro, trasmessoci da Terenzio, Jus summum saepe summa est malitia (Heautontimoroumenos, atto IV, scena 5, v. 47).
Insomma, bisogna temperare la giustizia. Ma come? [Bisogna temperare la giustizia.Ma come?] Nulla togliendole, ma integrandola. Sono due, e ben diverse, le linee di pensiero che si sono mosse in questa direzione. Secondo una prima linea dipensiero, la giustizia può autointegrarsi, ricorrendo, per dir così, ad una sua risorsa interna l’epieikeia:questo tema, definitivamente introdotto nella filosofia da Aristotele e ripreso poi dai canonisti, da Tommaso, Lutero, Grozio, arriva fino ai filosofi del diritto nostri contemporanei, attraversando la storia del pensiero giuridico come un filo rosso. Secondo questa prospettiva l’epieikeia è chiamata ad ammorbidire la giustizia in quei casi in cui essa, a causa della necessaria astrattezza della legge rispetto ai casi concreti, potrebbe divenire, contro le sue stesse ragioni profonde, fonte di torto. Ma si tratta pur sempre di un «ammorbidimento» che crea innumerevoli problemi, perché altera la vocazione della giustizia alla parità di trattamento. Questo spiega, almeno in parte, il fatto che epieikeia sia di fatto intraducibile in latino, cioè in una tradizione linguistico-culturale ben più rigida di quanto non fosse quella greca, come mostra anche il fatto che la traduzione latina più consolidata del termine greco sia molto equivoca: aequitas infatti non rende per nulla l’idea di epieikeia quanto piuttosto l’idea che la lingua greca esprime con isotes, e cioè l’eguaglianza. Se per Aristotele, che ricorre ad una immagine famosa, epieikés è «il regolo di piombo che si usa nell’edilizia di Lesbo: esso infatti si piega alla forma della pietra e non rimane rigido» (1137b), aequa, in latino, è la superficie del mare quando non spira nemmeno un alito di vento. Chiamata a temperare la giustizia, l’equità entra quindi – per forza di necessità – in tensione con essa: un suo pieno trionfo, infatti, destrutturerebbe il principio stesso di legalità, colpirebbe la giustizia al cuore. Marginalizzata o addirittura esclusa dall’orizzonte dei processi, l’equità si è creata storicamente un suo piccolo spazio, in ambiti arbitrali o comunque estremamente limitati e così sopravvive, più come monito che come forza intrinseca al sistema giuridico.
Il fallimento dell’equità sembra avvalorare l’ altro modo per temperare la giustizia, quello di etero-integrarla attraverso l’amore. Il tema è stato elaborato e presentato in innumerevoli varianti, che ricorrono comunque tutte a poche metafore fondamentali, tra le quali prioritaria quella che fa riferimento al dinamismo dell’amore rispetto alla staticità della giustizia. L’amour est la mobilité de la justice, la justice ets le tourbillonement stationnaire de l’amour, scrive efficacemente Vladimir Jankélévitch.
Il tema emerge già nell’Antico Testamento e trova poi nel Vangelo, in particolare nella parabola del Buon Samaritano, la sua espressione più compiuta. Tsedaka, nell’ebraico biblico,è l’attitudine propria dell’uomo il cui sguardo va al di là della stretta giustizia; l’uomo che sa venire incontro alle esigenze del prossimo, di colui non può rivendicare diritti, ma si trova in stato di necessità. Il termine ha la stessa radice di tsedek, giustizia, ed indica una sintesi di diritto, virtù ed equità: indica più l’idea di un dovere morale e legale che quella di un semplice slancio di compassione o di un moto di misericordia (che in ebraico è espressa piuttosto dal termine hessed). L’aiuto al povero, allo straniero, alla vedova, all’orfano acquista nell’Antico Testamento lo statuto di una mitsva, di un obbligo religioso, che va esteso perfino agli animali, come risulta da Es 23, 4s: «Quando incontrerai il bue del tuo nemico o il suo asino dispersi, glieli dovrai ricondurre. Quando vedrai l’asino del tuo nemico accasciarsi sotto il carico, non abbandonarlo a se stesso; mettiti con lui ad aiutarlo». Non lasciamoci distrarre dal carattere apparentemente primitivo di questi precetti: aiutare il nemico, colui al quale propriamente nulla dobbiamo in stretti termini di giustizia, implica la capacità di sfondare l’orizzonte formale del diritto e di riattivare quelle dinamiche di comunicazione interpersonale, che la giustizia, in senso proprio, non ha nemmeno la possibilità di programmare. Il tema appartiene alla tradizione più vitale dell’ebraismo ed è ripreso da Maimonide che lo allarga fino a sostenere che l’uomo abbia un dovere di tsedaka perfino nei confronti degli animali; è come se la Giustizia fosse incapace di creare un adeguato equilibrio tra gli umani e il mondo animale, vegetale, ambientale in cui essi sono calati e fosse perciò bisognosa di essere ulteriormente arricchita.
Questa forma di etero-integrazione della giustizia, ad onta della ricchezza delle sue tematizzazioni storiche, filosofiche e letterarie, suscita però forti perplessità. Non c’è dubbio che nel contesto che ho appena descritto la giustizia resta il termine forte e imprescindibile che governa le relazioni interpersonali, mentre l’amore appare nelle forme di un arricchimento, indubbiamente nobile e suggestivo, ma potenzialmente sentimentale e sotto molti profili eventuale. «Se ci fosse più giustizia, non ci sarebbe bisogno della carità», ha scritto Bobbio. Pensato in questa prospettiva, l’amore, insomma, integrando la giustizia, non riesce però a trasformarla, e non può né forse vuole sottrarle il primato che sembra spettarle come virtù relazionale. E’ per questa ragione che, con una coerenza che troppo spesso sottovalutiamo, ebraismo e islam non amano presentarsi come religioni dell’amore,ma come religioni di giustizia,non vedendo di certo in questa loro autoqualificazione alcuna deminutio rispetto al cristianesimo: il che, naturalmente, come ha ben osservato la Rutheven, non significa che i cristiani amino più dei musulmani o degli ebrei o che musulmani o ebrei siano più giusti dei cristiani, ma che nelle culture semitiche la parola giustizia appare per essi ben più concreta ed evocativa della sospirosa e spesso vuota parola amore.
2. Cieca e sorda, la Giustizia è stata per lo più rappresentata nella tradizione occidentale come una figura sovrumana, severa, fredda e inexorabilis. Esiste però un altro modo di pensarla e di rappresentarla, un modo per il quale la cecità resta una sua esplicita caratterizzazione, ma in cui essa perde anche ogni freddezza e ogni severità ed acquista invece caratteri umanissimi di debolezza. Mi riferisco ad un apologo, interno alla tradizione musulmana, molto conosciuto e molto diffuso tra le popolazioni berbere del Nord dell’Africa, che riferisco nell’esposizione fattane da Lawrence Rosen (The anthropology of Justice. Law as culture in Islamic society, Cambridge University Press, 1989, p. 75):
All’inizio dei tempi Giustizia e Ingiustizia erano vicine di casa. Un giorno Ingiustizia propose a Giustizia di compiere assieme un pellegrinaggio fino al santuario di un santo. «Prepara bene le tue provviste – disse Ingiustizia – dal momento che il viaggio sarà lungo». Il giorno stabilito le viandanti si misero in viaggio. Durante le ore di luce esse proseguivano il cammino, mentre la sera ognuna preparava il suo pasto a seconda delle provviste portate. Tuttavia, ogni sera Ingiustizia si limitava a prendere pochi datteri e un sorso d’acqua. Ma quando Giustizia le chiese perché non mangiava, Ingiustizia le rispose semplicemente che non aveva molto appetito. Così fu per tutto il viaggio di andata. Lungo il viaggio di ritorno, Giustizia si trovò a corto di cibo. La prima sera Ingiustizia mangiò ghiottamente attingendo alle sue riserve di miele e pane, carne e burro, non offrendo nulla alla compagna di viaggio. Giustizia la rimproverò per il suo comportamento tanto meschino, mentre Ingiustizia si limitava a ridere dell’ingenuità della sua amica. Passato un altro giorno di lungo viaggio in un clima torrido, Giustizia aspettò di nuovo qualche gesto da parte della sua compagna, ma non ottenne alcunché. Notando lo stato di prostrazione della sua amica, Ingiustizia le disse allora: «Se vuoi mangiare devi pagarmi, perché non posso nutrirti gratis». «Ma io non ho nulla da darti – replicò Giustizia – Ti pagherò una volta arrivate a casa». Ingiustizia rifiutò l’offerta affermando: «Tu devi pagarmi ora, se vuoi mangiare ora». Giustizia le chiese allora quale fosse il prezzo che avrebbe dovuto pagare per poter mangiare e Ingiustizia replicò: «Devi darmi uno dei tuoi occhi». Il cuore di Giustizia ebbe un sobbalzo, ma alla fine ella decise di accettare il ragionamento per cui era meglio per lei esistere con un solo occhio piuttosto che non esistere affatto. I termini dell’accordo furono immediatamente assolti. Tutto il giorno successivo Giustizia resistette coraggiosamente alla fame e alla sete, ma al calar della sera non ce la fece più e cedette a Ingiustizia anche l’altro suo occhio per poter avere in cambio un po’ di cibo. Fu così che Giustizia divenne cieca e continuò a vagare sola e raminga nel deserto.
Questa painful allegory, secondo l’espressione dello stesso Rosen, è istruttiva sotto diversi punti di vista. Non c’è dubbio che il comportamento di Ingiustizia sia completamente carente di ospitalità e di solidarietà e di conseguenza (in particolare per la tradizione islamica) assolutamente odioso. Ma è altresì indubbio che la tragica fine di Giustizia non dipende dalle trame di Ingiustizia (che oltre tutto, prima del viaggio, ammonisce saggiamente la compagna a fare abbondanti provviste), ma dalla sua stessa imprevidenza. Se fosse stata più accorta (e nel deserto l’accortezza è un dovere, oltre che una virtù sovrana), Giustizia avrebbe pensato a rifornire adeguatamente la sua bisaccia prima di partire per il pellegrinaggio e non sarebbe caduta preda delle pretese esorbitanti di Ingiustizia. L’apologo, insomma, ci mostra che la cecità di Giustizia (cioè, fuor di metafora, il fatto che in questo mondo essa sia destinata sistematicamente al fallimento o sia comunque sempre inadeguata ai propri compiti) dipende dai suoi stessi intrinseci limiti. La cecità diviene in tal modo il segno non della austerità del suo carattere, come nella tradizione iconografica occidentale, ma della sua colpevole inadeguatezza: la vergine di Crisippo, dallo sguardo intenso e terribile, si trasforma in una avventata e sciocca donnicciuola.
L’apologo, indubbiamente, colpisce nel segno. Esistono dei profili che rendono strutturalmente inadeguata la giustizia, per come essa è stata comunemente pensata nella tradizione occidentale, a reggere le cose del mondo. [Per come è stata comunemente pensata la giustizia è strutturalmente inadeguata a reggere le cose del mondo] Le due forme costitutive della giustizia, quella commutativa e quella distributiva, che abbiamo imparato a declinare grazie ad Aristotele, ci appaiono, nella loro stessa pretesa calcolante, intrinsecamente fragili e comunque irriducibili alla coerenza logico-matematica di un calcolo assoluto. Se giustizia implica debitum reddere, le commutazioni potrebbero (forse!) in alcuni casi trovare un loro equilibrio (e la bilancia potrebbe pur garantirlo), ma certo non in tutti e comunque non nei casi davvero rilevanti. Già S.Tommaso ammoniva che in alcune specifiche circostanze la restitutio è di principio impossibile: il figlio non potrà mai, in termini di stretta giustizia, restituere ai genitori ciò che da essi ha ricevuto, il beneficato non potrà mai soddisfare adeguatamente il proprio benefattore, né l’uomo, per quanto possa rendere il dovuto culto a Dio, potrà mai ritenersi soddisfatto, religiosamente giusto. Il discorso può naturalmente dilatarsi. La fiducia è parte essenziale e costitutiva di ogni rapporto interpersonale e dei rapporti giuridici in particolare: ma come è possibile giuridicizzarla? Come è possibile contraccambiarla in una logica bilanciata? Né è immaginabile che trovi adeguata remunerazione chi riesce a introdurre la bellezza nel mondo. Non è che manchino tentativi, anche illustri, di minimizzare questa costitutiva debolezza della giustizia: si pensi al De beneficiis di Seneca e a molte opere similari, che però attivano nel lettore inevitabilmente il sospetto che dietro l’elogio della beneficialità si nasconda un sottile e invincibile narcisismo, che gratifica il benefattore più ancora che la gratitudine del beneficato e che sottrae paradossalmente al rapporto tra i due la doverosa caratterizzazione personale, che è custode dell’ autenticità del rapporto stesso. Ancora maggiori le difficoltà cui va incontro l’altra grande dimensione della giustizia, quella distributiva. La distribuzione,implicando una divisione,inevitabilmente infatti si scontrarsi con quella che è stata efficacemente chiamata la ribellione del numero e cioè con l’incommensurabilità di alcuni rapporti. Di qui non solo gli insolubili paradossi ai quali va incontro ogni sistema che abbia necessità di fondarsi su criteri di giustizia formale, ma ancor più la tormentosa impossibilità di strutturare secondo autentica giustizia (senza ricorrere cioè a faticose e sempre controvertibili mediazioni) i rapporti interpersonali. Il Talmud racconta: «Un giorno Rabbi Johanan ben Mathià disse a suo figlio: Va’ e prendi a servizio gli operai. Questi include nelle condizioni il vitto. Quando ritornò, il padre disse: Figlio mio, quand’anche tu preparassi loro un pasto uguale a quello servito dal re Salomone, non potresti sdebitarti con loro, perché sono i discendenti di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. Intanto che non hanno ancora cominciato il lavoro, va’ e precisa: non potrete prendere altro che pane e legumi secchi». Commenta Lévinas: «Ecco alcune indicazioni sul diritto altrui: è un diritto praticamente infinito»; di conseguenze le pretese di coloro che sono titolari di un diritto infinito non saranno mai compiutamente soddisfacibili. Sembra quindi che non inappropriatamente William Baranés e Marie-Anne Frison-Roche abbiano scelto per una raccolta, da loro curata, di saggi sulla giustizia il titolo La justice: l’obligation impossible.
In questa prospettiva che vede la bancarotta della giustizia, potrebbe sembrare che l’amore sia chiamato a celebrare i suoi trionfi. Mutuum date nihil inde sperantes (Lc VI.35). Qui si radicano tutte le tradizioni antigiuridiste, che proclamano l’inessenzialità della giustizia e magnificano la potenza, teologica e sociale, dell’amore. Chi ha l’amore ha tutto, perché l’amore è la pienezza della legge (Rom., 13.9 ss.), perché – secondo la parabola del giudizio finale (Mt 25, 31-46) – il Giudice del mondo giudicherà esclusivamente attraverso il criterio dell’agape. Sono innumerevoli, nella storia dell’Occidente, le dottrine, che secondo diverse modalità, ripropongono questa tematica. E tutte, nessuna esclusa, cadono di fronte alla semplice e radicale obiezione che proviene assieme dal nostro cuore, dalla nostra intelligenza, dalla nostra esperienza e, last but not least, dalla rivelazione: se è vero che chi ha l’amore ha tutto, è ancor più vero che, secondo la dura espressione di Paolo (Rom. 3,23) tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio e di conseguenza che nessuno ha realmente l’amore.
3. E’ questa l’ultima parola? Certamente no. Intuitivamente, confusamente, testardamente noi riteniamo che la giustizia, di cui siamo costitutivamente e disperatamente privi, ad onta di tutto quello che si possa dire, pur riesce ad entrare nel mondo e a stabilirvicisi. E’ ben difficile, a partire da quanto detto, comprendere come – Carneade l’attribuiva alla pazzia, dato che a suo avviso solo un folle potrebbe, per realizzare la giustizia, andare alla ricerca del vantaggio altrui con proprio danno, ma siamo comunque ben in grado di attestare questo fatto. Cicerone percepisce e ben descrive la miseria dell’uomo, anche se non è in grado di indicarne le ragioni: rem vidit, causam nescivit, commenta S.Agostino. In qualche misura siamo in una situazione analoga. Ma già l’osservazione delle cose stesse può fornirci qualche utile indicazione per costruire, accanto ai primi due paradigmi su cui abbiamo riflettuto e che si sono mostrati per diverse ragioni profondamente insoddisfacenti, un terzo paradigma, forse più produttivo di loro.
L’osservazione delle cose del mondo ci mostra infatti come l’amore, accanto ad una funzione psicologica, sentimentale, affettiva – quella che induce Ricoeur a parlare di una poétique de l’amour e di una prose de la justice – , possieda una capacità cognitiva,di cui la filosofia moderna e contemporanea ha purtroppo sottovalutato la portata. [L’amore possiede una capacità cognitiva di cui la filosofia ha purtroppo sottovalutato la portata] L’amore è in grado di aprirci alla conoscenza del mondo, se è vero – come diceva Pascal – che non si conosce la verità se non la si ama. E conseguentemente l’amore, con tutta la carica di paradossale asimmetria che esso veicola, ci apre alla giustizia, non nel senso che ne determini i simmetrici contenuti, ma nel senso che ne garantisce la credibilità e la possibilità. E’ questo, in fondo, il senso dell’ammonimento agostiniano: Adde caritatem, prosunt omnia, detrahe caritatem nihil prosunt coetera (Serm., 138.2).
Il rischio però è sempre quello di interpretare l’amore come un’addizione e non come un presupposto. Prezioso è l’auspicio di Paul Ricoeur: «L’incorporation tenace, pas à pas, d’un degré supplémentaire de compassion et de générosité dans tous nos codes – code pénal et code de justice sociale – constitue une tâche parfaitement raisonnable, bien que difficile et interminable» (Amour et justice, Tübingen 1990, p. 66). Esso però non sembra riuscire a sfuggire del tutto alla tentazione di pensare che l’amore possa venir dopo la giustizia, quando piuttosto esso è chiamato a precederla e a fondarla.
La logica, tipicamente agapica, del dono può essere una buona esemplificazione di quanto appena detto. Nella logica della giustizia, il rapporto giuridico è destinato, intrinsecamente, a strutturarsi come un rapporto tra due volontà prive di volto, di identità, di sentimenti, di carattere. Ma quando si manifesta nella relazione interpersonale la possibilità del dono, in essa si attiva una specifica e qualità etica, che la giustizia è incapace di attivare. Il dono crea solidarietà, amicizia, fiducia nell’ordine della coesistenza, perché, come ogni altra manifestazione dell’ amore, esso è in grado – per usare una suggestiva immagine di Luigi Alici – di intercettare il bene. E’ pur vero, continua Alici sulla scia peraltro anche di Ricoeur, che l’amore in una logica di dinamicità circolare con la giustizia, a questa deve lasciare «il compito di disciplinare la convivenza nei termini imperativi del dovere, riservandosi però la possibilità di una ripresa critico-oblativa, quando la norma giuridica diventa cieca di fronte a questioni troppo specifiche per essere generalizzabili e rischia di chiudersi nel vicolo cieco del formalismo» (Il terzo escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2004, p. 155), dato che mentre «all’amore è affidata la cura del legame con ciascuno e la sua cifra è il dono…alla giustizia è affidata la cura del legame collettivo e la sua cifra è la pace». Ma ciò che rileva è che la possibilità stessa che la convivenza nella pace e secondo giustizia si articoli «nei termini imperativi del dovere» e che questi termini possiedano una loro credibilità non è generata dalla giustizia grazie alle sue forze endogene. La giustizia ha bisogno dell’amore per attivarsi e per mantenersi attiva, esattamente come una macchina ha bisogno di un carburante che ne renda possibile il movimento. Non si può quindi essere d’accordo con Ricoeur, quando scrive che «La justice est le medium nécessaire de l’amour; précisément parce que l’amour est supra-moral, il n’entre dans la sphère pratique et éthique que sous l’égide de la justice». E’ piuttosto vero il contrario: senza il medium dell’amore, la giustizia non potrebbe manifestarsi nel mondo e resterebbe una parola vuota. [Senza il medium dell’amore la giustizia non potrebbe manifestarsi nel mondo]
Esiste un’opera che costituisce una esemplificazione, pressoché sterminata, di quanto appena detto: alludo ai Misérables di Victor Hugo. Spina dorsale del romanzo è in fondo una biografia: quella di Jean Valjean, che dopo essere passato per l’inferno della violenza, del delitto e della galera, riesce ad approdare al piano della giustizia e a radicarvisi saldamente. La credibilità narrativa e soprattutto artistica della trama dei Misérables ha un unico fondamento: l’incontro di Jean Valjean, stanco, affamato, disperato, in cerca di un riparo per la notte, e respinto da tutti, col vescovo Myriel. Questi lo accoglie senza alcun turbamento, con semplicità, fraternamente; lo ammette alla sua mensa, gli offre un letto. Ma durante la notte il galeotto deruba il suo benefattore e fugge. Arrestato, egli mente: le posate d’argento che i poliziotti hanno trovato nella sua bisaccia e di cui gli chiedono conto gli sarebbero stati donati dal vescovo Myriel. E Myriel, davanti al quale Valjean viene ricondotto, per essere sbugiardato e poi ricondotto in una galera dalla quale non sarebbe con ogni probabilità più potuto uscire, non ha esitazioni: contro ogni buon senso razionale, ma grazie alla sua finissima sapientia cordis, quella che solo l’amore è in grado di dare, egli lo salva, confermando la sua incredibile menzogna: sì, le posate e i candelabri sono davvero un dono che egli ha fatto a Jean Valjean, cui la polizia è così costretta a ridare la libertà. Valjean riceve quindi da Myriel un dono, immeritato come tutti gli autentici doni e come tutti i doni autentici non contraccambiabile. Ma non si tratta di un dono istintivo, motivato sentimentalmente; è piuttosto un dono, per dir così, attentamente calcolato, perché il vescovo Myriel è perfettamente consapevole che da esso dipende non solo la libertà attuale di Jean Valjean dal carcere, ma la sua stessa libertà futura dal male. E’ un dono che ha piuttosto l’aspetto (sia pur metaforico) di una compravendita, indispensabile per attivare un dono ulteriore, quello che davvero sta a cuore al buon vescovo. Dicendo addio al galeotto assolutamente esterrefatto e che lentamente elabora la piena comprensione di quello che gli è incredibilmente successo e mandandolo libero per la sua strada, Myriel mette in chiaro il senso ontologico del dono che gli ha fatto: Jean Valjean, mon frère, vous n’appartenez plus au mal, mais au bien. C’est votre âme que je vous achète; je la retire aux pensées noires et à l’esprit de perdition et je la donne a Dieu. E’ in virtù di questo dono, cioè di un atto di amore – e per nessuna altra ragione – che in Jean Valjean si installa in modo assolutamente indelebile lo spirito di giustizia.